Cos'è la sindrome di Kawasaki, come si cura e qual è il legame col coronavirus? Abbiamo fatto chiarezza con l'aiuto del professor Angelo Ravelli.
Cos'è la sindrome di Kawasaki, come si cura e qual è il legame col coronavirus? Abbiamo fatto chiarezza con l'aiuto del professor Angelo Ravelli.“Informare, senza allarmare”. È il motto del professor Angelo Ravelli, direttore della Clinica Pediatrica e Reumatologia dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova e segretario del Consiglio Direttivo del gruppo di Studio Reumatologia Pediatrica della Società Italiana di Pediatria (Sip). L’abbiamo raggiunto perché volevamo chiarirci le idee su un tema che in queste settimane sta sollevando non poche preoccupazioni tra i genitori: cos’è di preciso questa sindrome di Kawasaki, che fino a ieri era nota soltanto agli addetti ai lavori e improvvisamente si è trovata al centro di un tam tam su giornali e social network? È vero che i casi sono in aumento, anche in Italia? Ha qualcosa a che fare con il coronavirus?
Cos'è la sindrome di Kawasaki
Procediamo con ordine. “Il nome suona un po’ esotico e immagino che non molti ne avessero sentito parlare prima di ora. Questa malattia è stata descritta per la prima volta nel 1967 dal professor Tomisaku Kawasaki in Giappone, zona dove peraltro è molto più frequente che nei paesi occidentali, forse per una predisposizione genetica”, esordisce il professor Ravelli. Ogni anno – conferma l’Istituto Superiore di Sanità – nel Regno Unito si verificano 8,1 casi ogni 100mila bambini al di sotto dei cinque anni, un’incidenza che sale fino a 17,1 negli Usa e 112 in Giappone. La sindrome di Kawasaki mostra anche una predilezione per i maschi, con un rapporto di 1,5:1 rispetto alle femmine. “Certamente è una malattia rara. In un grande ospedale pediatrico come il Gaslini ne osserviamo al massimo 8-9 casi l’anno”, continua il professor Ravelli.
Ma di cosa si tratta, nello specifico? Innanzitutto è una malattia acuta: a differenza delle patologie croniche, quindi, si manifesta in pochi giorni con sintomi evidenti e scompare altrettanto rapidamente, se curata in modo adeguato. Tecnicamente è una vasculite sistemica (in parole più semplici, un’infiammazione dei vasi sanguigni) che colpisce soprattutto le arterie coronarie che portano il sangue al cuore.
Sindrome di Kawasaki: i sintomi spia
Passiamo alla prima domanda che si sarà posto qualsiasi genitore, sentendola nominare per la prima volta: come faccio a capire se il mio bimbo ha la sindrome di Kawasaki? Ripercorriamo uno per uno i sintomi:
- Febbre alta che dura per almeno cinque giorni. I comuni farmaci antipiretici come tachipirina e ibuprofene a volte riescono ad abbassarla leggermente, altre volte non hanno alcun effetto. Gli antibiotici invece sono del tutto inutili.
- In aggiunta alla febbre, i bambini sviluppano un rash cutaneo, cioè un insieme di macchie sul tronco e sugli arti.
- Entrambi gli occhi si presentano arrossati.
- Le linfoghiandole ai lati della mandibola si ingrossano, di solito da un lato solo.
- Anche il cavo della bocca e la lingua si presentano arrossati, tant’è che i pediatri parlano di “lingua a fragola” o “lingua a lampone”.
- I bambini colpiti dalla sindrome di Kawasaki hanno anche un edema, cioè una tumefazione delle mani e dei piedi.
- Capita anche che alcuni bambini, soprattutto quelli più piccoli, da un giorno all’altro cambino umore e diventino molto irritabili.
A leggere questa lunga lista viene spontaneo pensare alle malattie esantematiche, ma il professor Ravelli assicura: è improbabile che il morbo di Kawasaki venga ignorato o scambiato per qualcos’altro. “La patologia con cui può essere confuso più facilmente è il morbillo, con cui ha in comune esantema, rash cutaneo e congiuntivite. Ma il morbillo si manifesta anche col cosiddetto “triplice catarro” (faringite, rinite e bronchite), che nella sindrome di Kawasaki invece manca; per giunta è diventato davvero raro grazie alle vaccinazioni di massa. Anche la rosolia ormai è rarissima e, pur causando un rash simile, si presenta con sintomi molto più tenui. La varicella invece provoca vescicole che si evolvono in croste, che non hanno nulla a che vedere con le macchie della malattia di Kawasaki”.
Quali sono i tempi di guarigione dal morbo di Kawasaki
La malattia di Kawasaki si sviluppa in tre fasi, che complessivamente coprono un periodo di sei settimane:
- Nella fase acuta (settimana 1-2) i vari sintomi che abbiamo appena descritto si manifestano in modo intenso e improvviso.
- A questa segue la fase sub-acuta (settimana 2-4) in cui i disturbi diventano meno gravi ma il bambino resta dolorante e irritabile. In questo stadio è più probabile incorrere in complicanze, ricorda l’Istituto Superiore di Sanità.
- Le settimane 4-6 corrispondono alla convalescenza, in cui i sintomi pian piano scompaiono lasciando il posto solo a un po’ di stanchezza.
Il legame tra coronavirus e sindrome di Kawasaki
È arrivato il momento di entrare nell’attualità. “In questo periodo, alcuni centri pediatrici di zone del nord Italia molto colpite dal Covid-19 (come Lombardia, Veneto e Liguria) ci hanno segnalato un insolito aumento dei casi di sindrome di Kawasaki. Anche al Gaslini di Genova abbiamo ricoverato cinque bambini in tre settimane”, racconta il professor Ravelli. Detto fatto, il Gruppo di Studio di Reumatologia della Società Italiana di Pediatria si è subito attivato per informare i pediatri italiani, invitandoli a tenere traccia di tutti i casi. A qualche giorno di distanza sono arrivati avvertimenti simili anche dal Regno Unito. “Molti di questi bambini sono risultati positivi al tampone o al test sierologico, altri sono stati esposti al contagio da parte dei familiari affetti. Tutti questi elementi hanno fatto supporre che le nuove forme di Kawasaki possano essere secondarie al coronavirus”.
Ecco allora esplodere l’attenzione dei mass media. Ad alimentarla, sottolinea il professor Ravelli, sono stati anche i toni un po’ enfatici adottati dai medici inglesi. “In Italia abbiamo evitato a tutti i costi di calcare la mano e allarmare le famiglie. Come prima cosa – e questo lo affermo con certezza, perché tutte le osservazioni reumatologiche arrivano al mio telefono o alla mia email – tutti i bambini che abbiamo ricoverato in queste settimane per la sindrome di Kawasaki sono guariti. Bisogna considerare anche che in Italia a effettuare le segnalazioni sono pediatri e reumatologi; nel Regno Unito invece sono i medici delle terapie intensive che entrano in contatto solo coi casi più difficili. Inoltre, stiamo pur sempre parlando di evenienze rare. I genitori non devono essere portati a credere che si rischi una pandemia di morbo di Kawasaki: anche a Bergamo, la città più colpita, sono stati registrati venti casi in totale. Sono sicuramente più della media ma sono pur sempre venti, non duecento o duemila”.
Sindrome di Kawasaki: esiste una terapia efficace?
Se tra i lettori c’è qualche genitore particolarmente apprensivo, è bene mettere in chiaro un aspetto fondamentale: il morbo di Kawasaki si può curare. E parliamo di terapie note, sicure e codificate da diversi anni. “Nell’80 per cento dei casi, la somministrazione di dosaggi elevati di immunoglobuline per via endovenosa spegne i sintomi nell’arco di 12-24 ore. Per giunta, questa terapia abbassa enormemente le probabilità di complicanze più serie”, spiega il pediatra. “Se non c’è risposta, si procede a un secondo ciclo di immunoglobuline e poi si passa al cortisone, che funziona molto bene”. Solo nei casi più difficili si può far ricorso a farmaci biologici, in particolare quello che blocca l’interleuchina 1, responsabile dei sintomi infiammatori.
I danni e le complicazioni della malattia di Kawasaki
Se la malattia di Kawasaki viene curata in modo tempestivo e adeguato, i piccoli pazienti guariscono completamente. Molto più di rado possono svilupparsi complicazioni che interessano soprattutto il cuore, come gli aneurismi (rigonfiamenti verso l’esterno dei vasi sanguigni). Per ridurre questa probabilità a livelli davvero minimali, però, basta somministrare le immunoglobuline entro una decina di giorni dalla comparsa della febbre.
I casi recenti di morbo di Kawasaki meritano di essere studiati molto da vicino, prosegue l’esperto, “perché una quota superiore rispetto al solito è andata incontro ad altre complicanze potenzialmente serie che hanno richiesto ricoveri in terapia intensiva o terapie più aggressive, come alte dosi di cortisone”. Qui si entra un po’ nel tecnico, ma cerchiamo di descriverle nel modo più semplice possibile:
- Sindrome da attivazione macrofagica. È l’equivalente di quella sindrome da tempesta citochinica di cui tanto abbiamo sentito parlare negli ultimi tempi, perché si manifesta negli adulti con Covid-19 che sviluppano una polmonite virale. In pratica, il sistema immunitario ha una reazione troppo violenta e finisce per attaccare l’organismo invece di difenderlo.
- Sindrome da shock tossico. Si crea uno stravaso di liquidi che escono dalla circolazione sanguigna, provocando un brusco calo della pressione che può innescare uno shock. Se è associata alla miocardite, cioè alla sofferenza del muscolo che pompa il sangue nel cuore, può portare a condizioni critiche.
“Nei bambini ricoverati nelle ultime settimane abbiamo notato alcune manifestazioni cliniche che di solito non compaiono nella sindrome di Kawasaki classica: dolori addominali, vomito e diarrea, oltre a un interessamento del miocardio (il muscolo del cuore) più che delle arterie coronariche”, continua il professor Ravelli.
Sindrome di Kawasaki: la fascia d'età più colpita
Un altro dettaglio che ha subito attirato l’attenzione dei medici è legato alla fascia di età dei piccoli pazienti. “La malattia di Kawasaki in genere colpisce bambini di meno di cinque anni, lattanti compresi. Ultimamente invece si registrano casi anche in ragazzini di 8-10 anni”, continua Angelo Ravelli.
Sindrome di Kawasaki: quali sono le cause
“La curiosità principale che nasce nella comunità scientifica è questa: possiamo considerare il coronavirus come una possibile causa della malattia di Kawasaki?”. Esatto: sebbene questa patologia sia nota da oltre mezzo secolo, ad oggi sul suo fattore scatenante ci sono soltanto sospetti e nessuna certezza. Più volte sono state suggerite associazioni con virus o batteri, senza mai riuscire ad avvalorarle su numeri più grandi. “Se questo legame venisse confermato, ci aiuterebbe anche a spiegare i meccanismi patologici di altre malattie infiammatorie più gravi”, sottolinea Ravelli.
“Si dibatte sull’ipotesi che la malattia non sia causata direttamente dal virus, ma da una reazione immunitaria anomala nei confronti del virus stesso. Questo spiegherebbe anche il motivo per cui, in Inghilterra, i casi di morbo di Kawasaki sono stati osservati dopo qualche settimana dall’inizio della pandemia. Ancora una volta, non dobbiamo immaginare che tutti i bambini contagiati dal coronavirus contraggano anche la malattia di Kawasaki: i numeri per ora ci dicono che si tratta soltanto di una piccola quota”.
Il gruppo di Studio Reumatologia Pediatrica della Sip si è già messo all’opera per raccogliere ed elaborare i dati su tutti i pazienti che hanno mostrato questi sintomi. Per arrivare a una verità accertata e condivisa, però, bisognerà attendere i tempi della scienza che sono necessariamente un po’ più lunghi.
Malattia di Kawasaki e ricadute
Quando l’iter terapeutico è concluso, i sintomi sono scomparsi e i medici hanno accertato l’assenza di complicazioni cardiache, il piccolo paziente e la sua famiglia possono archiviare definitivamente quest’esperienza: la malattia di Kawasaki non presenta recidive, se non in casi assolutamente eccezionali. I genitori di bambini e ragazzi che l’hanno già avuta in passato, sottolinea quindi il professor Ravelli, non hanno nessun motivo di allarmarsi più del dovuto.
I centri specializzati e la cura del morbo di Kawasaki
Tenendo bene in mente che si tratta di un’eventualità rara, anzi rarissima, mettiamoci per un attimo nei panni di una famiglia che inizia a notare qualche sintomo sospetto. Che fare? Correre subito in ospedale? Ci sarà da fidarsi, in questi tempi di pandemia? Il professor Ravelli ci tiene a mettere i puntini sulle “i”: “La prima cosa da fare è sempre consultare il pediatra di famiglia, che è il principale punto di riferimento e deciderà se il bambino va ricoverato. Se è questo il caso, non c’è niente da temere: gli ospedali sono sicuri perché hanno creato circuiti separati per le persone con infezione (accertata o anche solo sospettata) da Covid-19. In questo momento c’è un’attenzione spasmodica a evitare nuovi contagi”.
Per riassumere, un bambino che ha bisogno di accertamenti o cure va portato senza indugi all’ospedale più vicino. “Qualsiasi pediatra, anche in una piccola struttura del territorio, sa riconoscere e trattare la malattia di Kawasaki. Non c’è motivo di viaggiare per centinaia di chilometri per raggiungere un centro specializzato, fatta eccezione per quegli sporadici casi in cui si manifestano delle complicanze”, conclude il professor Angelo Ravelli.