Editoriali
Editoriali

Perché la parola "resilienza" ci ha stufato

Di tendenza da qualche anno, promessa della capacità di reagire a ogni difficoltà, ormai è perfetta per qualsiasi contesto e argomento, perdendo di significato. E la pandemia l’ha definitivamente sdoganata. Credendo di farci sentire tutti invincibili.

Di tendenza da qualche anno, promessa della capacità di reagire a ogni difficoltà, ormai è perfetta per qualsiasi contesto e argomento, perdendo di significato. E la pandemia l’ha definitivamente sdoganata. Credendo di farci sentire tutti invincibili.

“Il sindaco ha approvato il bilancio della resilienza”
“Bambini, Covid e resilienza: l’importante di superare i cambiamenti”
“Donne in lockdown: serve una nuova resilienza familiare”
“Resilienza: la storia dell’ultimo calzolaio di Foligno”
“Sport e Covid: la resilienza dell’atletica leggera”
“I Maneskin: la nostra generazione cattiva e resiliente”


Voi lo avete capito cosa significa davvero la parola “resilienza”? 

Grande protagonista della moda più recente, esplosa prepotentemente nell’anno della pandemia come simbolo di un tenere duro di cui non ci sentiamo forse più capaci, come potete notare negli esempi sopra (sono solo alcuni degli ultimissimi articoli che contengono la parola nel titolo) ormai “resilienza” sta bene su tutto. Dall’economia allo sport, dalla psicologia alla cronaca, a qualsiasi altro campo. “Resilienza” [re-si-lièn-za], sostantivo femminile, è diventata quasi una parola jolly, che non riusciamo a fare a meno di tirare in ballo pur spesso ignorandone la vera essenza. Talmente elastica da rischiare di diventare sempre più vuota.

A furia di leggere questo concetto dappertutto e a sentirlo nominare nei contesti più svariati abbiamo imparato senza farci troppe domande che “resilienza” ha un significato positivo, che tutti dovremmo essere “resilienti”. Ma se qualcuno dovesse chiederci il significato di questa parola abusata e bistrattata, quanti di noi saprebbero rispondere? 

Il vero significato della parola resilienza

Scrive l’Accademia della Crusca che con il significato di ‘capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi’ “la parola resilienza ha guadagnato, negli ultimi anni, una sorprendente popolarità”. Parola che ha un’origine latina – deriva dal verbo resilire – ovvero “saltare indietro”, “ritornare in fretta”, “rimbalzare”, apparsa per la prima volta nella lingua italiana nel 18esimo secolo, che nasce in campo fisico e ingegneristico per indicare “la capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l’energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione”. 

Quindi altro non rappresenta che la proprietà di un materiale di resistere a un urto senza spezzarsi, diventata nel linguaggio comune sinonimo di forza e spirito di adattamento: “resiliente” è chi di noi è in grado di reagire di fronte a difficoltà ed eventi negativi. Visto che siamo ad aprile 2021, quindi sopravvissuti a un anno di pandemia mondiale, chi di noi non potrebbe dirsi “resiliente”?

Come se non fosse già ampiamente di tendenza e quindi abusata, la pandemia con le enormi e innumerevoli difficoltà che ci ha posto di fronte ogni giorno, ne ha definitivamente sdoganato l’uso, rendendola ufficialmente un pass-partout.
Chi di noi è sopravvissuto a un anno come il 2020 significa che ha resistito, che ha sopportato, che è riuscito a non soccombere, che è caduto ma si è rialzato. La resilienza ci ha resi quindi tutti eroi?

In pandemia siamo tutti resilienti?

No, perché “resistere” non è quasi mai una scelta, corrisponde di più a un puro istinto di sopravvivenza. Un’alternativa non c’è: possiamo solo affrontare quello che ci succede. Questo non significa non soffrire, non provare dolore, non disperarsi. Non siamo eroi, né tantomeno siamo tutti resilienti. 

Nel vocabolario Treccani l’aggettivo resiliènte, per estensione, significa “riferito a persona, che oppone resistenza, che si difende con forza”. Ma non siamo come un materiale che resiste a un urto senza deformarsi, noi esseri umani ci deformiamo eccome. Il dolore e la sofferenza ci muovono, ci cambiano, ci trasformano. 

Non siamo più gli stessi al ritorno da un viaggio, figuriamoci dopo aver affrontato un lutto, figuriamoci dopo un anno di pandemia che ci ha costretti a rivalutare qualsiasi aspetto della nostra esistenza, dalla mancanza del balcone in casa alla sostanza più profonda delle relazioni che non avevamo mai visto così attentamente.

Non rimbalziamo senza mutare. E siamo stanchi di sentirci chiamare “resilienti” in qualsiasi contesto, come se questo dovesse farci sentire migliori, persino invincibili.
L’economia è resiliente, il mondo dello sport è resiliente, il lavoratore disperato è resiliente, le mamme in smartworking con i figli in DAD sono resilienti. Ognuno è resiliente e nessuno è resiliente.

È così che come ogni parola estremamente abusata si svuota, perde senso, perché ci rende tutti identici l’uno all’altro. È così che ci sentiamo tutti in un modo di cui non conosciamo più il significato. È così che diventa uno slogan senza più contenuto, un tatuaggio cool, un hashtag dall’uso incontrollato: soltanto su Instagram 480 mila post sono accompagnati dal cancelletto #resilienza. Se vi capita di farci un giro, lo troverete sotto a foto di biscotti al burro d’arachidi, sotto frasi pseudo-filosofiche, come sotto le pubblicità di corsi scontati di yoga. A quel punto se sarete confusi avrete più che ragione, ma potrete sempre tornare sul sito di Treccani. 

Foto apertura:  Artur Szczybylo -123.rf