What's New
What's New

Prima il Covid, poi la guerra. Quali le conseguenze psicologiche?

Prima il Covid-19, poi la guerra. Come mantenere la lucidità e non farsi sovrastare dalla paura? L'abbiamo chiesto al professor Pietro Cipresso, consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL).

Prima il Covid-19, poi la guerra. Come mantenere la lucidità e non farsi sovrastare dalla paura? L'abbiamo chiesto al professor Pietro Cipresso, consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL).

Gli ultimi due anni non ci hanno risparmiato nulla. Prima una pandemia che si è lasciata un pesantissimo bilancio in termini di vite umane e ci ha privato di ciò che davamo per scontato, come abbracciare i nostri cari o prendere un treno. Appena abbiamo avuto l’impressione di entrare nella fase di convivenza con il virus, la Russia ha invaso l’Ucraina dando il via a qualcosa a cui, almeno nella nostra Europa, eravamo convinti di non dover più assistere: una guerra

Ci sarebbe da stupirsi se non fossimo psicologicamente provati. Il continuo diluvio di news, bollettini e immagini (talvolta molto forti) accompagna le nostre giornate e, a lungo andare, può metterci a dura prova. Ma come possiamo fare per mantenere la lucidità? Qual è il confine tra la sana abitudine di mantenersi informati sul mondo e la dipendenza compulsiva dalle notizie negative? 
L’abbiamo chiesto al professor Pietro Cipresso, consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) e professore associato di Psicometria presso il dipartimento di Psicologia dell'Università di Torino, autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche e curatore di oltre 20 libri internazionali.

Qual è stata la reazione più comune alla guerra?

L’essere umano vive di emozioni e grazie a loro ha potuto crescere ed evolversi nella storia. La guerra, così come la pandemia, ha giocato un ruolo cruciale nel suscitare l’emozione della paura, molto studiata in letteratura scientifica. Nell’amigdala, una parte molto profonda del nostro cervello, c’è un’attivazione di fronte alla paura che innesca certe reazioni quasi automatiche. 

È chiaro che la paura chiama paura, e noi veniamo da una situazione pandemica in cui essa è stata un vissuto quotidiano. Soprattutto durante il primo lockdown, la comunicazione dei governi si è incentrata molto sulla paura. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e l’Ordine degli Psicologi della Lombardia hanno sottolineato più volte la necessità di intervenire anche da un punto di vista psicologico, perché il virus ci ha colti impreparati anche su quel fronte. Gli psicologi però sono stati coinvolti pochissimo dalle istituzioni e l’investimento in psicologia è stato scarno

È per questo dunque che il Covid-19 e la guerra in alcuni casi hanno provocato reazioni simili, come l’assalto ai supermercati?

Il Covid-19 e la guerra hanno in comune proprio la paura. Ancora una volta, ci troviamo in una situazione in cui mettiamo in discussione la nostra stessa sopravvivenza. Se però viviamo in questo stato di stress persistente e non interveniamo sul nostro benessere, prima o poi il nostro organismo ci presenterà il conto. In un articolo recente le associazioni internazionali di cardiologia hanno stimato che le problematiche cardiovascolari del futuro deriveranno, in gran parte, dalla salute mentale.

Sono anche i social a contribuire a questo stato di paura generalizzata? Si parla anche di doomscrolling, la dipendenza dalle cattive notizie.

Da ben prima della pandemia ci si occupa di studiare quanto i media, in generale, contribuiscano alla definizione delle emozioni. Studi che sono stati approfonditi in questo periodo. La letteratura scientifica ci dice che i social hanno sempre un effetto amplificatorio, ma la televisione e gli altri mezzi non sono da meno. 

Ho svolto uno studio sull’impatto mediatico dei telegiornali durante la prima ondata, un periodo nel quale parlavano solo ed esclusivamente di pandemia. È vero anche, però, che i giornalisti fanno il loro mestiere. Nel momento in cui c’era il conteggio quotidiano dei morti e uscivano decreti tutte le settimane perché il governo era alle prese con una situazione ingestibile, era inevitabile che i media rilanciassero questi messaggi, con un effetto amplificatore che ha creato nuovo terrore. La responsabilità, a mio parere, non è dei social in quanto tali. 

Quanto conta l’alfabetizzazione digitale, cioè la capacità di selezionare le notizie? 

Questo discorso va affrontato soprattutto per le fasce dei giovanissimi e degli anziani. Tutti abbiamo in mano uno smartphone e un computer, ma la gestione dei social media richiede una capacità relazionale enorme e manca un’educazione orientata all’uso di questi canali. Non si può dimenticare che, in molti casi, i social media sono stati anche valvole di sfogo rispetto alla reclusione 24 ore su 24 all’interno di case spesso inadatte. Insomma, hanno avuto dei grandi meriti, ma quanto ci preoccupiamo di educare a usarli in modo corretto? 

Su questo bisognerebbe investire, così come sulla salute mentale e sul benessere. I benefici sarebbero immensi, in termini psicologici ma anche fisici. Vivere immersi in questa paura di sicuro non ci allunga la vita. Il disagio mentale, specie quello in giovane età che ha conseguenze a lungo termine, ha un costo elevato per tutta la società, come dimostrato dagli studi economici. In termini di disabilità prodotta il disagio psicologico è la prima voce di costo nel campo della salute, così come è la prima causa di assenteismo dal lavoro (dati OMS, EU-OSHA, OCSE). Secondo la London School of Economics ogni euro speso per la salute psicologica produce 2,5 euro di minori spese.

Può darci alcuni consigli pratici per affrontare questo periodo senza farci sovrastare dalla paura?

Innanzitutto, ciascuno di noi ha diritto di prendersi cura del proprio stato mentale, facendo tutto ciò che lo fa stare bene: praticare sport, incontrare gli amici, o anche rivolgersi a un professionista. Se ci si rende conto di essere rinchiusi nella paura, bisogna reagire rivendicando il proprio diritto a stare bene.

Un altro consiglio è quello di non improvvisarsi scienziati e non porsi l’ambizione di comprendere tutto. Quando si parla di comunità scientifica, ci si riferisce all’insieme di articoli che portano a una comprensione ottimale (ma sempre migliorabile) della realtà. Se il singolo cittadino inizia a documentarsi, arriverà sempre a una visione molto parziale. Cerchiamo di essere umili e di fidarci della scienza; non degli scienziati, ma di una comunità che discute e si mette lei stessa in discussione. Anche la scienza sbaglia, ma con il tempo lo riconosce e cerca di giungere a una conoscenza sempre più accurata del fenomeno studiato. L’obiettivo della scienza non è la perfezione, ma minimizzare l’errore.

Infine, ciascuno di noi può cercare di capire se c’è una base scientifica dietro alle innumerevoli soluzioni che ci vengono proposte su internet. Ben venga l’app per dormire meglio, ma è stata sviluppata da professionisti? Non si gioca con la salute mentale delle persone. 

Foto apertura: yupachingping / 123rf.com