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Abortire in Italia è ancora molto difficile. La storia di Beatrice

Attraverso il racconto di chi l’ha vissuto sulla propria pelle, l’evidenza di come questo diritto nel nostro Paese non sia sempre garantito. 

Attraverso il racconto di chi l’ha vissuto sulla propria pelle, l’evidenza di come questo diritto nel nostro Paese non sia sempre garantito. 

«A un certo punto ho visto entrare nella camera d’ospedale un prete che ha detto a me e alla mia compagna di stanza “che Dio vi perdoni e vi accolga per il peccato che avete commesso”». A raccontare questo episodio, accaduto nell’Italia del 2020, è Beatrice (nome di fantasia, ndr), una ragazza la cui unica colpa è di aver usufruito di un diritto sancito in modo inequivocabile dalla legge 194 del 1978: quello di interrompere una gravidanza non desiderata nei tempi prestabiliti.

Un diritto che nel nostro Paese troppo spesso fatica ad essere garantito, a causa di una serie di ostruzioni più o meno velate. Prima tra tutte, l’alto numero di ginecologi obiettori di coscienza, che nel 2018, ultimo dato utile fornito dal ministero della Salute, era pari al 69%, del totale e che in alcune zone si alza ulteriormente, rendendo quasi inattuabile il servizio. È il caso del Molise, dove esiste un unico non obiettore in tutta la Regione.

Ma altrove le cose non vanno tanto meglio, come dimostra la storia di Beatrice, che vive in Lombardia.

Il suo racconto è emblematico e quella della benedizione imposta è solo una delle tante violenze psicologiche e non, inflittale nel periodo intercorso dalla scoperta di essere incinta, all’aborto.

test gravidanza

Foto: uhhha - 123.rf

ABORTIRE IN ITALIA: LA STORIA DI BEATRICE

Tutto è iniziato a marzo 2020, in pieno lockdown, quando dopo giorni di ritardo, un test di gravidanza fatto «più per scrupolo che per altro, visto che prendevo la pillola con regolarità da 8 anni ed ero tranquilla», ha dato esito positivo.

«La sera stessa mi sono sentita male e al Pronto Soccorso di Gallarate, dopo aver chiarito di non voler portare avanti la gestazione, sono stata liquidata in modo sbrigativo e spedita all’unico consultorio della zona collegato all’ospedale, per farmi fare la lettera obbligatoria per accedere all’IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza)».

A quel consultorio però, nonostante le tante sollecitazioni, Beatrice ha avuto accesso dopo aver compiuto 8 settimane, essersi rivolta anche a una ginecologa privata e aver cercato soluzioni alternative, senza trovarle, nel raggio di molti chilometri. «Volevo abortire con la pillola RU486 perché mi sembrava il metodo meno invasivo ma in Italia era consentita solo fino alla settima settimana di gestazione, contro i 90 giorni dell’intervento chirurgico, e a causa dei continui rimbalzi tra un posto e l’altro il tempo per me alla fine è scaduto. Ho cercato aiuto ovunque, anche a Milano, ma gli ospedali che ho contattato non prendevano appuntamenti. Però se volevo potevo mettermi in fila dalle 7 del mattino alle 11 davanti ai loro cancelli e sperare, visto che accettavano solo quattro donne al giorno e le richieste erano molte di più».

COME FUNZIONA L’ABORTO FARMACOLOGICO

L’aborto farmacologico avviene con l’assunzione di pillole di Mifepristone e successivamente di prostaglandine. Ad agosto 2020 il ministero della Salute ha allungato di due settimane la possibilità di ricorrervi ed eliminato l’obbligo di ricovero ospedaliero di 3 giorni, per semplificare un iter più lungo di quello previsto per l’intervento chirurgico, che si svolge in day hospital, e che contribuisce in parte a rendere il metodo farmacologico poco praticato (solo il 24% del totale), nonostante molto richiesto.

Al consultorio l’unica cosa ottenuta da Beatrice è stata l’ennesima umiliazione. «Mi hanno detto che 28 anni sono l’età giusta per metter su famiglia, che io e il mio compagno potevamo permettercelo, che mi sarei sicuramente pentita e che al massimo esisteva l’adozione». Un’escalation di aggressioni verbali, culminate con «Se poi un giorno vorrai diventare madre in base a cosa quel bambini varrà la pena tenerlo e questo invece, buttarlo?».

Una frase agghiacciante che porta alla luce un altro aspetto predominante se si parla di aborto, lo stigma sociale. Nel 2020, infatti, è ancora inconcepibile pensare che una donna non voglia figli, e se è così deve sentirsi in colpa.

Nonostante i mille tentativi di sabotaggio, alla fine Beatrice è riuscita a prenotare l’intervento di interruzione a Varese, quando mancavano solo due giorni al termine legale e con il timore di non farcela, soprattutto a causa dei protocolli Covid, che hanno rallentato una macchina organizzativa già fortemente provata. Nemmeno in reparto il clima è stato accogliente, visto che la risposta alla richiesta di un bicchiere d’acqua è stata «prima aprono le gambe e fanno quello che fanno e poi pensano a bere e a mangiare».

«Mi sono sentita abbandonata e insultata e questa sensazione ha raggiunto l’apice quando mi è stato chiesto se volevo occuparmi io della sepoltura del feto», spiega la ragazza.

L’ennesima umiliazione, dovuta molto probabilmente all’infiltrazione di associazioni Pro life nella struttura ospedaliera e inferta infrangendo la legge, che sancisce che per i prodotti del concepimento di meno di 20 settimane, la sepoltura sia facoltativa e su richiesta dei genitori, altrimenti spetti alla struttura ospedaliera. 

A distanza di mesi Beatrice ripensa con rabbia a quel calvario, ma la convinzione della sua scelta non è mutata.
«Non mi sono mai sentita incinta e non ho mai voluto o amato quel futuro bambino. Dicono che una donna alla vista del test di gravidanza positivo si senta già madre ma per me non è stato cosi, l’ho vissuto come un peso, una disgrazia. Non voglio essere madre, non ora, e soprattutto voglio decidere io quando e se diventarlo. Un giorno se accadrà, dovrò poter dire a mio figlio che è nato perché desiderato, non perché la pillola non ha funzionato».

L’IMPEGNO DI OBIEZIONE RESPINTA

Ad aiutarla a veder riconosciuti i propri diritti, è stata l’associazione Obiezione Respinta, che da anni lotta al fianco delle donne. Del suo intervento, se le cose funzionassero, non ci sarebbe bisogno ma purtroppo non è così. «La situazione già critica prima, con il Covid è ulteriormente peggiorata. - spiega Eleonora, una delle attiviste. - Oggi rispetto alla primavera ci sono molte più positive che devono abortire e le Asl che sanno come comportarsi sono pochissime. Senza contare che gli adeguamenti delle linee guida della scorsa estate da soli non bastano se poi molte regioni li impugnano e fanno di testa loro come sta avvenendo in questi giorni in Piemonte».
Nonostante siano passati oltre 40 anni dall’approvazione della legge 194, dunque, la strada per la vera accettazione di questo diritto sembra ancora molto lunga.

di Alessia Ferri

Foto apertura: Aleksandr Davydov - 123.rf