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Benessere gluten free: business o realtà?

Gli alimenti senza glutine stanno conquistando i reparti dei supermercati: sarà una vera necessità o una moda passeggera? Abbiamo chiesto lumi a Patrizia Marani, regista del documentario "Glutine: il nuovo Nemico Pubblico?".

Gli alimenti senza glutine stanno conquistando i reparti dei supermercati: sarà una vera necessità o una moda passeggera? Abbiamo chiesto lumi a Patrizia Marani, regista del documentario "Glutine: il nuovo Nemico Pubblico?".

Se abbiamo avuto l’impressione di vedere l’etichetta “gluten free” sempre più spesso, i dati ci dimostrano che non è solo un’impressione. Solo in Italia questo claim compare sull’11,3% dei prodotti e ha visto crescere le vendite del 4,1% tra giugno 2019 e giugno 2020; lo svela l’Osservatorio Immagino.

D’altronde, a evitare il glutine è una fascia sempre più ampia della popolazione, tra chi ha una diagnosi accertata di celiachia e chi, invece, assicura di sentirsi gonfio e affaticato dopo un semplice piatto di pasta al pomodoro. La domanda sorge spontanea: il gluten free è una moda come tante altre? Oppure pasta, pane e pizza sono davvero nocivi e faremmo meglio a eliminarli dalla nostra dieta? 

Troviamo parecchie risposte nel documentario "Glutine: il nuovo Nemico Pubblico?", che è stato visibile su Arte.tv. Alcune di queste risposte probabilmente non ci piaceranno. L’inchiesta ci accompagna in un mondo in cui i grandi poteri economici hanno spazzato via i grani antichi, più facilmente digeribili, e li hanno rimpiazzati con grano canadese geneticamente modificato e inondato di erbicidi. Sostanze che per il nostro corpo sono estranee o addirittura tossiche: da qui il lungo elenco di malesseri che una vasta fascia della popolazione associa al glutine.

Abbiamo raggiunto la regista Patrizia Marani, autrice del documentario, per chiederle di ripercorrere insieme a noi i punti salienti del documentario. Conoscere più da vicino queste dinamiche infatti è una grande fortuna, perché ci permette di scegliere con più consapevolezza ciò che mettiamo nel piatto, facendo un prezioso regalo a noi stessi e alla nostra salute.

Viene da pensare che il gluten free sia un giro d'affari e anche una moda, ma effettivamente c'è stato un aumento considerevole della celiachia e della sensibilità al glutine. Può citare qualche dato?

«Fino a vent’anni fa il cibo gluten free si trovava solo in pochi negozi di nicchia, poi ha vissuto un sorgere impetuoso fino a conquistare i reparti dei maggiori supermercati. È solo una moda? Diciamo che la risposta della nostra inchiesta non è bianca né nera ma molto sfaccettata. 

Senza alcun dubbio c’è una componente di moda, lo ammette anche il Ceo di un’importante industria di alimenti gluten free. Però, anche lasciando da parte la sensibilità al glutine che è un disturbo molto più sfuggente, il numero di celiaci è in aumento di quattro volte rispetto agli anni Cinquanta. Questo è un dato scientifico e incontrovertibile. Se poi osserviamo le indagini sulla popolazione, arriviamo a risultati veramente scioccanti: già nel 2012 il 13% della popolazione si diceva sensibile al glutine, nel giro di pochi anni si è arrivati al 32,8%. 

Difficile pensare che si tratti solo di autosuggestione. Sta succedendo qualcosa che è legato agli alimenti base della dieta occidentale, cioè pane, pasta, pizza. Com’è possibile? Un aumento così veloce non può essere di tipo genetico, dicono i gastroenterologi. Solo l’ambiente può portare un picco così repentino».

Dal documentario emerge una realtà: il cibo che mangiamo non è lo stesso rispetto a 50 o 100 anni fa. Quali sono, in breve, i motivi principali? 

«La prima rivoluzione è legata al grano e risale alla fine dell’Ottocento, quando si inizia a macinare la farina con i mulini a cilindro. La farina raffinata, che fino a quel momento era consumata solo dalle classi più abbienti, viene adottata da gran parte della popolazione e diventa di fatto il primo alimento industriale della storia, perché dura più a lungo e quindi può essere commercializzata in tutto il mondo. Purtroppo, però, così facendo perde le parti fibrose – che giocano un ruolo fondamentale per la salute del microbioma intestinale – e il germe di grano, cioè la parte più nutritiva del chicco. In compenso mantiene l’amido, che al nostro cervello piace tantissimo.

Negli anni Cinquanta si introducono nelle coltivazioni – e quindi nell’organismo umano – alcune sostanze chimiche che dovrebbero uccidere gli elementi naturali che minacciano il raccolto. Questa è la seconda rivoluzione. Siccome il grano antico così alto non si adattava a queste sostanze, dai laboratori esce una nuova tipologia di grano che ha una resa molto maggiore ma, per contro, contiene un glutine più difficile da digerire. 

La terza rivoluzione avviene nel 1995 quando si iniziano a irrorare le colture con gli erbicidi - in primis il glifosato - che in origine erano stati pensati per liberare il terreno dalle erbe infestanti prima della coltivazione. Di conseguenza vengono inventate colture geneticamente modificate per sopravvivere a queste irrorazioni di sostanze tossiche.

Sostanze tossiche che finiscono nel nostro piatto…

«Sì, la tossicità nel nostro piatto cresce molto e va a esaltare quella del grano. Anche nel grano antico infatti il glutine veniva notato dal nostro sistema immunitario, e ce lo dimostra il fatto che la celiachia esista da sempre. Il cambiamento della tipologia di glutine, dovuto a questa selezione del grano, invece è una novità. E sono una novità le tecniche di coltivazione moderne. I meccanismi di disintossicazione del nostro organismo sono messi a dura prova da tutte queste sostanze chimiche. Quando si parla di pesticidi e diserbanti di solito si focalizza l’attenzione sui rischi per l’ambiente, ma quelli per la salute umana sono ancora più grandi».

Il documentario inizia parlando di salute e alimentazione ma ben presto diventa un'inchiesta geopolitica. Quando ha iniziato a lavorare sul tema si immaginava questa evoluzione?

«L’inchiesta è partita proprio da un aspetto di geopolitica perché stavamo seguendo le guerre commerciali in corso, in particolare nel sud Italia, dove un’organizzazione aveva denunciato la presenza di glifosato nei marchi italiani che importavano la pasta dal Canada. Ci siamo posti una domanda: la contaminazione da glifosato può in qualche modo essere correlata alla celiachia? Da qui è partita l’indagine sul glutine e poi sui monopoli che trattano il cibo come una merce pura e semplice. Da qui la domanda che ci siamo posti: è giusto che l’alimento sia una merce? Stiamo parlando della componente alla base della nostra vita e della nostra salute. 

Il grano duro, una coltura che ama il caldo, viene coltivato in Canada: ma a che prezzo? Irrorandolo con quantità impressionanti di glifosato. Nel 2015 lo Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) l’ha classificato come un probabile cancerogeno, mentre l’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) afferma l’esatto contrario. È evidente che un cittadino non sa più a chi credere. Da qui abbiamo cercato di capire come queste agenzie elaborino le loro classificazioni, e abbiamo scoperto che è l’industria stessa a effettuare gli studi. Com’è possibile che l’industria, facendo gli studi sui prodotti che poi venderà, orienti le scelte dei regolatori? 

C’è di più: questi studi non vengono pubblicati nemmeno sui giornali scientifici perché sono segreti industriali. Così facendo il processo scientifico viene sconvolto perché viene meno la peer review, cioè la revisione da parte dei pari. La ricerca scientifica pubblica ormai si è quasi estinta perché si sta demandando tutto al privato. Ma non è giusto, soprattutto quando – come in questo caso – la ricerca riguarda prodotti che hanno un forte impatto sulla salute pubblica».

Di fronte a dati del genere, può venire la tentazione di sentirsi scoraggiati e impotenti. Quali consigli darebbe ai nostri lettori che ci tengono a tutelare la loro salute?

«Al termine del documentario cerchiamo di far capire il potere che tutti noi abbiamo. Innanzitutto, è importante leggere le etichette. Se per esempio in un prodotto industriale leggiamo “amido di…” come primo o secondo ingrediente, dobbiamo ricordarci che l’amido è praticamente privo di elementi nutritivi. Due miliardi di persone nel mondo soffrono di carenza di micro-elementi, con conseguenze negative per la salute. Questo perché si mangia cibo molto trattato e di bassa qualità.

Dovremmo scegliere aziende artigianali che credono nella responsabilità sociale, che producono nel territorio, che ci mettono la faccia, che creano una relazione con il consumatore. La grande industria fa proprio il contrario, cerca di imporci alimenti anonimi. La consapevolezza del consumatore può fare tantissimo: se la grande industria vuole il profitto e noi glielo togliamo, vinciamo noi

Quindi, riassumendo, il primo consiglio è informarsi, informarsi, informarsi. Poi bisogna controllare le etichette e cercare alimenti integri, naturali, freschi, locali, appena raccolti. Il mango che arriva dall’altra parte del mondo è stato necessariamente raccolto quando era ancora immaturo e quindi, per definizione, privo di nutrienti.

Ora passiamo più nello specifico al glutine. Una persona celiaca, non potendo assolutamente mangiare fibra di grano, dovrebbe preferire i cibi naturalmente privi di glutine (riso, mais, legumi…) rispetto a quelli a cui è stato tolto artificialmente. Chi ha una sensibilità al glutine non celiaca invece può mangiare la farina di grano, purché sia un grano antico e non trattato. È una buona idea anche cercare i forni e le aziende che fermentano a lungo e con la pasta madre perché i batteri dei fermenti eliminano in parte il glutine. Insomma, abbiamo un grandissimo potere: il potere di scegliere».

Foto apertura: margouillat / 123rf.com