Carriere e Visioni
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Simona Atzori: «Non mi manca niente per essere felice»

In occasione della Giornata Internazionale della Danza, a tu per tu con Simona Atzori, ballerina e pittrice nata senza braccia. Che invece di arrabbiarsi ha scelto di essere grata alla vita e aggredirla, imparando ad accogliersi. E realizzando sogni.

In occasione della Giornata Internazionale della Danza, a tu per tu con Simona Atzori, ballerina e pittrice nata senza braccia. Che invece di arrabbiarsi ha scelto di essere grata alla vita e aggredirla, imparando ad accogliersi. E realizzando sogni.

Sorride sempre Simona Atzori, lo sento anche dall’altro lato del telefono. E’ una di quelle persone che in pochi minuti sono in grado di trasmettere la loro immensa gratitudine nei confronti della vita, nonostante la vita, almeno inizialmente, non sia stata gentile con lei.

Nel 1974 Simona nasce senza braccia a causa di una malformazione. Una parte di lei fisicamente manca e lo sguardo degli altri glielo ricorda di continuo, ma decide di concentrarsi su tutto quello che può fare anche senza quella parte, e non su cosa le è stato tolto. Così insegue i suoi sogni con una grinta che le appartiene fin da piccola: a quattro anni inizia a dipingere, a sette comincia a danzare. E non si ferma più: fa parte dell'Associazione internazionale dei pittori che dipingono con la bocca o il piede (VDMFK), nel 2000 danza per Papa Giovanni Paolo II al Giubileo, scrive tre libri (il primo nel 2011 “Cosa ti manca per essere felice?”), nel 2006 apre l’inaugurazione delle Paralimpiadi di Torino, nel 2012 si esibisce sul palco del Festival di Sanremo. E tanto altro.

In occasione della Giornata Internazionale della Danza, ci ha raccontato cos’ha significato per lei questa passione, e di quanto sia importante “accoglierci” per quelli che siamo, chiunque siamo. 

La danza è una delle tue grandi passioni. Come è cominciata?
Quando ho iniziato avevo sette anni. Volevo semplicemente fare qualcosa che amavo. Da bambini sono gli istinti che ti portano verso le cose, senti una spinta dentro e la segui. Io sentivo in maniera molto forte che quando danzavo ero felice. Riempivo la musica con il corpo. Crescendo, questo amore per la danza è cresciuto con me.

Come si è trasformato?
In alcuni momenti della mia vita ha preso forma ed è diventata un sogno, in altri non ci credevo ma l’ho sempre portata avanti perché la amavo. Man mano la forza di quell’amore mi ha permesso di andare oltre, oltre i limiti che gli altri mi imponevano, e oltre chi diceva che non potevo farlo. 
Ho sempre cercato di trovare il mio modo di danzare, con il mio equilibrio, ascoltando il mio corpo.
A causa della pandemia da tempo non puoi danzare nei teatri. In quest’ultimo anno il mio tappeto di casa è diventato il mio palcoscenico dove mi metto ad ascoltarmi in maniera forse più profonda di prima, quando davamo per scontate tante cose. Fare riscaldamento e danzare non era più una routine come in passato, quindi ho intrapreso un ascolto nuovo, mi sono scoperta ri-ascoltatrice del mio corpo. 

Come ti senti di fronte alla prospettiva delle nuove riaperture? 
Sono entusiasta, l’idea di tornare sul palco mi emoziona molto, ma anche un po’ impaurita: nella mia casa mi ero creata una zona di comfort. D’altra parte però sento la voglia di scoprire anche nuove modalità. Tutto cambia e ben venga che sia così, anche quando certi cambiamenti non li aspettavamo e non li vorremmo. Diciamo che sono stata allenata dalla vita in questo.

La pittura è l’altra tua grande passione. Come è nata?
Mia sorella maggiore danzava e dipingeva e io la imitavo. Ho un ricordo chiaro di me che seduta sul tappeto prendo con il piede un colore, il rosso, e inizio a tracciare dei segni. Piano piano le persone che mi circondavano si sono accorte che ero brava. Anche se avevo una tecnica molto strana: disegnavo i bambini capovolti poi giravo il foglio (ride, ndr). Forse  avevo già capito allora che avrei dovuto inventare una prospettiva tutta mia.

Quanto è stato difficile approcciarsi a queste due passioni per una bambina senza braccia?
Con la pittura è stato abbastanza facile: mia mamma scoprì che esisteva un’associazione internazionale di pittori che dipingono con la bocca e con i piedi. Ho iniziato a farne parte insieme ad altri artisti provenienti da tutto il mondo. La strada della pittura era quindi stata già tracciata da altre persone simili a me. Era un po’ più possibile rispetto alla danza, che ho dovuto invece sudare di più. 

Quanto è stato complesso il tuo percorso di accettazione della tua condizione, e come si è evoluto?
Ho avuto la fortuna di avere una famiglia straordinaria, questa è stata la base. Mamma, papà e mia sorella mi hanno da subito “accolta”: per me questa parola è importante. C’è differenza tra “accoglienza” e “accettazione”: la seconda presuppone uno sforzo. Se penso a come mi sentivo da bambina ricordo una sensazione di accoglienza. La mia famiglia è stata il mio terreno fertile, con uno sguardo non di limite ma di possibilità. Mi ha aiutata a capire che avrei potuto fare quello che sentivo, quindi la danza e la pittura sono stati gli strumenti che mi hanno permesso di raccontarmi. Non ho mai sentito che non potevo, ma che dovevo trovare i miei modi per fare le cose.

La tua famiglia ti ha sempre incoraggiata, anche se immagino che non sia stato semplice non trasmetterti le loro di paure.
Sì, ci vuole tanto coraggio da parte dei genitori, me ne rendo conto oggi. Mia mamma aveva capito che trasmettendomi paura io sarei cresciuta in compagnia della paura. Nemmeno lei sapeva cosa significava essere la mamma di Simona, se lo è inventato insieme a me. È stato un percorso bello, a tratti difficile, soprattutto durante l’adolescenza. Il tuo corpo cresce e ti scontri con un mondo esterno che non ti vede con gli occhi della tua famiglia, quindi devi affrontare in qualche modo quello sguardo. 

simona atzori

Uscire dalla comfort zone non deve essere stato semplice, soprattutto da piccola.
In alcuni momenti ho sofferto. Io mi sono sempre accolta grazie appunto allo sguardo della mia famiglia, ma poi la difficoltà arrivava quando dall’altra parte trovavo uno sguardo che non combaciava col mio. Mi rendevo conto che quello sguardo si basava su un corpo, non su quello che io ero, e questo mi dava molto fastidio, mi chiedevo: “Perché mi giudichi solo perché mi manca qualcosa?”. 

Ti sei mai sentita arrabbiata per quello che ti è successo? Ti sei mai chiesta “Perché a me?”
No, non sono mai stata arrabbiata. Mi sono sempre detta, anche da bambina, che non volevo perdere tempo ed energie per arrabbiarmi con qualcosa che in realtà mi stava facendo diventare la persona che ero. Se avessi avuto le braccia sarei stata un’altra persona, non questa. Il mio obiettivo era cercare di vivere al meglio per come ero, e come sono. Anzi, sai cosa ti dico?

Dimmi!
In alcuni momenti della mia vita in cui ho provato delle soddisfazioni che mai avrei immaginato di vivere, mi sono chiesta: “Perché a me tutto questo?!”, però in senso opposto. La vita mi ha donato tanto, anziché arrabbiarmi ho scelto di cercare determinate cose e accoglierle. Questo non vuol dire che sia stato facile, che non sia stato doloroso. Anzi, il percorso di consapevolezza è stato molto intenso.

Nel 2012 è mancata la tua mamma, un punto di riferimento immenso per te.
Stavo attraversando un momento bellissimo della mia vita, avevo da pochi mesi partecipato a Sanremo, era uscito il mio libro… Poi tutto è crollato con la sua morte. Sono caduta in un grande buio. Oggi posso dire a posteriori che quello che gli altri vedono come la mia grande forza arriva dalla mia fragilità. Non voglio trasmettere l’immagine di quella forte perché di natura: la forza me la sono costruita, me la sono andata a cercare ed è passata attraverso anche questo dolore. Forse quando è morta mia mamma è stato il momento in cui davvero ho perso le braccia. 

Anche il rapporto con te stessa e il tuo corpo è cambiato?
Esatto. Lei mi aiutava, mi sosteneva, faceva molte cose per me, alcune ho imparato a farle da sola in questi otto anni senza di lei e ho scoperto di saperne fare altre. Questa è la mia seconda vita, dopo che è mancata è nata un’altra Simona. 

So che a te non piace la parola “normalità”. Ma poi, tu alla fine hai capito che cos’è?
Eh! Se la “normalità” è definibile per ognuno di noi è una parola che ha un senso, invece se la delineiamo in base a schemi che qualcuno ha deciso ci rientriamo in pochi, mentre nell’unicità ci siamo tutti, ognuno nella propria. 

Parlando di pregiudizi rispetto alle persone con disabilità, secondo te a che punto siamo? Sono state infrante barriere negli ultimi anni? 
Devo dire di sì, sono cambiate tante cose grazie anche a molte persone che non hanno avuto paura di mettersi in gioco e di raccontarsi attraverso l’arte e lo sport. Trovo che lo sport abbia aiutato tantissimo nel permettere alle persone di essere considerate tali, come persone, al di là dell’etichetta che ci aggiungi. Negli ultimi anni di cambiamenti ne ho visti, anche se la strada da fare è ancora lunga, è un processo culturale. 

Cosa ci rende diffidenti nei confronti dell’altro?
Ci ho riflettuto spesso, e credo che l’essere umano abbia paura di ciò che è diverso da sé perché è qualcosa che lo mette di fronte a uno specchio che gli dice “attraverso la mia diversità ti sto dicendo qualcosa di te” e mettersi in discussione è complesso, tendenzialmente ci piace ciò che già conosciamo. Per proteggerci non ci chiediamo cosa possiamo scoprire di noi stessi attraverso la diversità altrui, ma preferiamo stabilire che l’altro è diverso. Questo crea distanza. Invece un cuore che batte lo abbiamo tutti. 

Ti pongo una domanda che conosci bene, visto che ha dato il titolo al tuo primo libro: cosa ti manca per essere felice?
Questa è una domanda boomerang, mi torna sempre indietro! In questo momento sarebbe facile dirti quello che mi manca: danzare, viaggiare… Però se mi fermo e guardo indietro all’anno trascorso penso: mi è stato tolto tutto quello che amavo e io sono ancora qui. Quindi forse la risposta è che alla fine non ci manca nulla. Mi sono resa conto che sono comunque Simona anche senza tutte le cose che sono la mia forza ma che in realtà non erano indispensabili come credevo. Sono ancora io.

Foto apertura: Paolo Genovesi