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Maschilismo sui social: perché l’hate speech contro le donne è ancora tollerato?

Le donne sono ancora il bersaglio preferito dei discorso d’odio online: ecco perché cambiare rotta è indispensabile

Le donne sono ancora il bersaglio preferito dei discorso d’odio online: ecco perché cambiare rotta è indispensabile

Ci siamo passate tutte. Scorriamo il nostro feed social e, tra un video divertente e un post informativo, ci imbattiamo in un commento che ci lascia un sapore amaro in bocca. Uno di quei tanti attacchi misogini che continuano a proliferare sotto foto, thread e video di donne, famose o comuni. Il commento potrebbe anche essere sotto uno dei nostri posto o delle nostre foto, a sottolineare magari un difetto fisico o, peggio, un giudizio tranchant e velenoso su una nostra opinione espressa in pubblico, invalidata dall'essere donne. Ma perché è così difficile estirpare l’hate speech ai danni delle donne dai social? E soprattutto, cosa ci dice il perdurare di questo maschilismo online nella nostra società?

Il problema sotto gli occhi di tutti: il maschilismo digitale

Negli ultimi anni, il dibattito intorno alla misoginia è cresciuto, eppure, sembra che i social siano diventati terreno fertile per i peggiori atteggiamenti maschilisti. Da insulti sessuali a offese gratuite, passando per minacce fisiche e vere e proprie campagne d'odio, una donna può diventare vittima di violenza verbale per i motivi più futili: un'opinione espressa con fermezza, una foto che "mostra troppo" (o troppo poco!), un successo lavorativo condiviso con orgoglio.

Secondo l’ultima Mappa di VOX* (Osservatorio Italiano dei Diritti) le donne sono al primo posto come categoria più colpita dai discorsi d’odio online. Seguono le persone disabili e omosessuali. I tweet raccolti da Vox nel periodo gennaio-ottobre 2022 (626.151) evidenziano un fenomeno radicalizzato, che ha visto il suo picco più alto contro le donne (43,21%) principalmente in concomitanza con gli episodi di femminicidio. Invece di compatire la vittima, i commentatori maschi si schierano al fianco del carnefice. Quasi a voler reiterare il vecchio detto "La donna deve stare al suo posto" e che chi osa andare contro corrente deve aspettarsi solo il peggio.

Negli ultimi anni, il dibattito intorno alla misoginia è cresciuto, eppure sembra che i social siano diventati terreno fertile per i peggiori atteggiamenti maschilisti. Secondo una ricerca di Amnesty International, il 23% delle donne intervistate in 8 Paesi ha dichiarato di aver subito molestie online, di cui molte a sfondo sessista o misogino. Tra queste, il 41% ha affermato di sentirsi fisicamente meno sicura dopo aver ricevuto minacce online, mentre il 55% ha dichiarato di aver limitato l’uso dei social per la paura di ulteriori attacchi.

In Italia, il fenomeno è altrettanto diffuso. Secondo un’indagine condotta dall’associazione D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, circa il 70% delle donne italiane attive sui social ha ricevuto commenti sessisti almeno una volta nella vita, spesso con toni aggressivi e minacciosi.

Gli haters sembrano agire con la convinzione di poter silenziare qualsiasi voce femminile che esca dai confini prestabiliti da una cultura patriarcale. E il problema non riguarda solo le donne con visibilità pubblica, come ad esempio Elly Schlein, spesso al centro di shitstorm scatenate nei commenti sotto ogni suo tipo di post. Sempre più spesso anche le utenti comuni, magari solo per aver difeso una posizione femminista o aver raccontato una propria esperienza, si trovano travolte da una valanga di critiche, insulti e minacce.

Maschilismo sui social: l’indifferenza dei giganti del web

Ci si chiede allora: cosa stanno facendo le piattaforme social, quelle stesse realtà che si vantano di essere inclusive e progressiste? Ogni giorno, milioni di donne denunciano contenuti misogini pubblicati online, segnalano utenti che si macchiano di insulti sessisti, eppure i filtri e le azioni delle piattaforme sembrano inefficaci.

Sebbene esistano policy contro l’hate speech, il problema sta nel fatto che l'applicazione di queste regole è pressoché nulla. Inoltre, sussiste una certa difficoltà nell'individuare contenuti che celano un odio sottilmente camuffato da “critiche legittime”, “ironia” o “libertà d’espressione”. In molti casi, le segnalazioni vengono ignorate o archiviate con messaggi automatici che lasciano senza protezione le vittime.

E allora viene da pensare che le piattaforme digitali tollerino (o addirittura facilitino) il maschilismo perché fa engagement. Perché, volenti o nolenti, gli insulti, le discussioni infuocate e i flame generano movimento, like, condivisioni e, di conseguenza, profitti? Sembra che la polarizzazione e l'odio siano più remunerativi dell'armonia e del rispetto.

Le radici culturali di un problema sistemico

Dietro la febbre misogina dei social, però, c’è una narrazione che va molto oltre le logiche del digitale. Il maschilismo su Instagram, Twitter e TikTok non è altro che il riflesso di una mentalità radicata nella nostra società, che fatica a mettere davvero in discussione le dinamiche di potere tra uomo e donna.

Siamo ancora circondati da linguaggi, media e istituzioni che perpetuano stereotipi. Le donne sono spesso rappresentate come “angeli del focolare”, madri amorevoli o oggetti sessuali. Ogni deviazione da questo schema suscita reazioni violente, spesso anche dalle donne che, come le femcel, scelgono di cavalcare il maschilismo per un proprio, ipotetico vantaggio. Insomma, sembra che l’auto-determinazione femminile sia ancora percepita come una minaccia concreta all’ordine prestabilito.

E finché il maschilismo sarà tollerato offline, nei luoghi di lavoro, a scuola, nei bar e nei contesti familiari, sarà impossibile debellarlo davvero online.

Maschilismo digitale ed hate speech: possibili soluzioni

La lotta al maschilismo sui social non può più essere considerata optional. Anche se lo scenario culturale e politico sembra navigare in senso opposto, è necessario premere su piattaforme e governi affinché si prendano misure più severe contro chi diffonde odio. Non basta bannare un profilo ogni tanto: occorrono politiche preventive, educazione alla parità di genere e risorse adeguate a sostenere le vittime. 

Ma la responsabilità è anche nostra, come utenti. Smettiamo di normalizzare l’hate speech contro le donne o, peggio, di considerarlo come un fenomeno marginale. Ogni commento misogino è un atto di violenza. E ogni volta che rimaniamo in silenzio, ci assumiamo la responsabilità di lasciarlo proliferare.

Solo combattendo l’hate speech con decisione, e rifiutando un sistema che lucra sul dolore e sull’oppressione, potremo costruire comunità digitali che siano davvero democratiche e ugualitarie. Sui social, come nella vita, è fondamentale costruire una società in cui “essere donna” non sia sinonimo di vittimismo e sottomissione.

Foto di apertura: Freepik