Editoriali
Editoriali

Allattare a letto ha salvato me e il mio bambino

Il tema non è se allattare a letto è sicuro oppure no. Il punto è che la mamma del Pertini è stata lasciata sola. La soluzione? Più umani in corsia.

Il tema non è se allattare a letto è sicuro oppure no. Il punto è che la mamma del Pertini è stata lasciata sola. La soluzione? Più umani in corsia.

Allatto a letto. Molto spesso. Anche di notte. E, visto che è inverno, faccio molta attenzione che coperte e piumoni stiano al loro posto, dove non possono far male al mio bimbo di tre mesi. Mi sono addormentata allattando. Molto spesso. Era l'unico modo per riposare e non trascorrere la notte in bianco dato che, da freelance, ho ripreso a lavorare esattamente trenta giorni dopo il parto. Troppo poco? Forse, ma non avevo molte alternative.

La mia non è una situazione unica o tragica. Affatto. È solo uno di milioni di casi di madre che ha dovuto darsi da fare perché senza tutele e senza rete.

Il caso della mamma del Pertini

Due settimane fa, presso l'ospedale Sandro Pertini di Roma, una donna stanca, provata dal parto, dopo 17 ore di travaglio, è stata portata in una stanza, nel cuore della notte, per sentirsi dire che suo figlio è morto. Nonostante le richieste fatte alle infermiere per poter portare il bambino al nido o poterlo semplicemente affidare a loro per avere un paio d'ore di sonno, ha sempre ricevuto un netto rifiuto. «Non è possibile», le dicevano. La flebo attaccata al braccio la intralciava nei movimenti. Poi, tra il 7 e l'8 gennaio, è crollata. All'improvviso, in quella notte fatale, le infermiere l'hanno svegliata e le hanno detto che suo figlio era morto.

Tutti i giornali hanno riportato il caso, titolando con “Donna soffoca figlio mentre allatta”. Diamo sempre per scontato che sia colpa delle madri. E anche questo modo di raccontare le cose deve finire, per lasciare in pace donne che, da sempre, fanno del loro meglio con quello che hanno (indovinate? Spesso molto poco).

Ma qui il tema è un altro. Bisogna concentrarsi sul rifiuto di quel personale che le nostre tasse pagano per, indovinate un po, assisterci.

Rooming in, si o no?

Nelle prime ore dalla notizia, si è diffusa una polarizzazione fin troppo facile. È colpa del rooming in – imposto, necessario, subito? Fate voi. Ma rooming in, in questo caso, è un'etichetta imprecisa. Come riportano Paolo Moretti e Annalisa Perino in Manuale per Genitori Imperfetti (Uedizioni, Sperling & Kupfer), «si parla di co-sleeping se il bambino dorme nella stessa stanza dei genitori, mentre per bed-sharing si intende la condivisione nel letto. Se a dormire nel lettone è un bambino allattato al seno, si pratica il breast-sleeping».

Gli autori continuano, dicendo che sono modalità di accudimento intraprese «per scelta» o di «una situazione subita dai genitori che a un certo punto si arrendono di fronte al pianto del bambino e lo portano a dormire nel lettone».

Ai fini di evitare la Sids, Sudden Infant Death Syndrome o morte in culla, è senza dubbio più sicuro il rooming in, cioè la condivisione della stanza con il neonato, che però dorme in un lettino separato. Ma provate ad alzarvi due, tre, quattro, cinque volte in una notte quando avete la schiena spezzata da uno degli sforzi più debilitanti che la natura ha reso possibili al corpo umano. Non si va molto lontano. Poi provate a non considerare il bed-sharing una salvezza. Per tutti. Bambino, mamma e papà.

Ma qualsiasi scelta fatta non toglie dal tavolo il fattore più importante. La mamma del Pertini, di fatto, è stata lasciata sola.

Un giudizio tombale

Com'è possibile soffocare un neonato col proprio peso? Se è davvero successo questo – e le cronache dicono che la dinamica è ancora da chiarire – la risposta può essere una sola: è stato possibile perché, a volte, l'espressione “stanca da morire” non è solo un modo di dire, ma diventa realtà.

Francesca Angeleri ha raccontato la sua esperienza di post-parto al Corriere della Sera mettendo al centro, come tante altre donne hanno fatto nelle ultime ore, la sua esperienza e la tragicità del trovare esseri umani inadatti al ruolo di ostetrica. Giudicanti, duri, poco empatici. Le hanno detto che non era portata a partorire né a fare la mamma.

Ed è questo il crac al cuore che forse tutte abbiamo sentito, quando abbiamo letto la notizia di Roma. Che al di là dell'essere una di quelle frasi che fanno rabbia, da raccontare alle amiche per sfogarsi, in questo caso la mamma che ha perso il suo bambino mentre lo stava allattando (forse) ha sentito che quella frase lì, per lei, era vera. Non aveva saputo essere una buona madre. Quel giudizio negativo è il terrore di ogni genitore. Figuratevi quando lo vedete accadere sotto i vostri occhi.

Quella madre resterà per sempre tale, ma con un fardello più pesante degli altri da portare. Un fardello che nessuno si è preoccupato di evitarle semplicemente aiutandola. Non sostenendola a livello psicologico o coccolandola: per quello ci sarebbe voluta una figura familiare – una mamma, un marito. Sarebbe bastato che ci fosse qualcuno – chiunque – pronto a tenere quel bimbo nei momenti in cui si deve solo riposare per poter essere forti dopo. Bastava aiutare. Farla dormire. Farla mangiare. E invece, in un Paese con un ministero dedicato alla natalità e alla famiglia, i bimbi muoiono o crescono male perché le madri sono sole. Culturalmente, economicamente e socialmente sole.

Ma anche perché infermieri e ostetriche sono spolpati da orari logoranti e pochi riconoscimenti. Perché in corsia c'è sempre meno umanità.

Il ruolo dei padri

Per fortuna i papà stanno cambiando. Sono più consapevoli. Vogliono mettersi davvero in gioco con le proprie famiglie, facendo quello che i loro padri non hanno voluto (o potuto) fare. Negli anni Ottanta o prima, era culturalmente impensabile che un padre volesse occuparsi della prole. Quasi un segno di debolezza. In più, le stesse madri escludevano gli uomini dalla cura dei figli perché pregiudizievolmente giudicati incapaci per genere, non sulla realtà dei fatti. Guardate i nonni che sono stati genitori negli anni Ottanta. Se il nonno prende in braccio il nipotino, la nonna è pronta a scattare per controllare che lo tenga correttamente, che non lo graffi, che non faccia danni insomma. Sfido chiunque a voler proseguire nelle cure infantili quando ha una spada di Damocle perennemente piantata sulla testa.

Oggi, nonostante i bambini abbiano fisiologicamente bisogno più della madre, i papà ci sono. Sanno cambiare pannolini e possono dare lezioni di pedagogia a molte donne. Si informano. Guardano ore di reel sul tummy time e l'uso delle palestrine montessoriane. Eppure – maledette regole Covid o perniciosi regolamenti da ospedale – non possono sostare con le madri in quei giorni tremendi del post parto. Quando ti senti uno straccio. Quando non riesci ad urinare per i punti. Quando tuo figlio piange e non sai cos'ha e, se al nido non c'è nessuno per il turno di notte, sei davvero in balia delle onde.

Volevo solo un lassativo

Figlie di un economia che vede gli ospedali come aziende, queste strutture si interessano alle mamme fino a quando devono “produrre”. Una volta espletato il parto, ci si concentra sul nuovo nato. Analisi, esami, controlli: il prodotto diventa consumatore, e quindi fatturato. Non importa se dipende fisicamente e biologicamente da quella donna che, dal suo letto, deve fare tutto con una difficoltà aumentata di almeno cento volte.

Dopo aver partorito, passati quattro giorni dalla mia ultima evacuazione, ho chiesto un lassativo. Avevo i punti, avevo paura di farmi male. L'ostetrica più anziana, che mi aveva assistito bene ma con durezza, ha liquidato la questione dicendo: «La farai a casa». Non ho smesso di chiedere. L'ho chiesto anche a quella dottoressa che, toccandomi la pancia, ha detto: «Sei piena d'aria e hai un po' di diastasi». «Appunto, datemi un lassativo, l'ho chiesto, ma niente». Quel lassativo non è mai arrivato e ancora mi chiedo perché.

Allattare a letto mi ha salvato

Allattare a letto mi ha salvato. Ha salvato me, e quindi anche il mio bambino. Un sillogismo spesso, troppo spesso, dato per scontato. Dopo notti in cui potevo concepire solo mal di schiena e puzza di cacca liquida, ho chiesto aiuto a Valentina. Valentina Perrone è la creatrice dell'associazione Tutto in un abbraccio, un presidio fondamentale nella mia piccola cittadina pugliese, in cui si fa ginnastica pre- e post-parto, incontri con pediatri, ostetriche e osteopati. Insomma, una sorta di Naia della maternità. Senza di loro, probabilmente mi sarei lacerata il collo dell'utero durante il travaglio. Invece ho ricordato di vocalizzare (non gridare) e di aprirmi (con il prezioso supporto della partoanalgesia).

Davanti alla mia faccia sfranta, Valentina mi ha detto: «Perché non provi ad allattarlo a letto? Lui ti percepirà più rilassata e tu potrai allentare la tensione muscolare». Non mi ha consigliato il breast-sleeping. Quello è venuto naturale, dopo. Ma ha guardato la mamma, ha visto la stanchezza e ha condiviso un consiglio da donna, madre di altri due bambini, che quella stanchezza la conosce bene.

Forse è questa la strada: mettere più esseri umani in corsia. Esseri umani capaci di guardare le ferite, le debolezze, sentirle e farle proprie. Solo così si potrà esercitare il vero senso della parola assistere per non lasciare mai più nessuna donna sola.