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Femvertising: rivoluzione culturale o operazione di facciata?

Dal caso Barbie alla consapevolezza che non è tutto femminismo quello che luccica

Dal caso Barbie alla consapevolezza che non è tutto femminismo quello che luccica

Negli ultimi anni, il femvertising – crasi di “female” e “advertising” – ha trasformato il panorama pubblicitario, promettendo di rompere con gli stereotipi di genere. Ma una domanda ci assilla: si tratta davvero di una rivoluzione culturale o solo di un’operazione di facciata abilmente confezionata? Scopriamolo insieme.

Cos’è il femvertising?

Il termine femvertising nasce nel 2014, nel corso di un dibattito in occasione dell’evento Adweek a New York. A dirigere il tavolo c'era Samatha Skey, CEO dell’azienda di media digitali SHEmedia, la donna che nel 2015 istituirà i Femvertising Awards, una competizione per premiare quei marchi che sfidano le norme di genere inserendo nella loro comunicazione messaggi pro-female

Femvertising, dunque, è una parola creata per descrivere quelle campagne pubblicitarie che promuovono uno storytelling basato su messaggi di empowerment femminile. Immagini di donne forti e indipendenti, concetti come self-love e body positivity, slogan motivazionali che rifiutano i vecchi clichés di fragilità femminile: tutto questo compone il fenomeno che molti teorici inseriscono all'interno della quarta ondata femminista, che mette i social e la comunicazione mediatica e digitale al centro della lotta.

Alcuni esempi di femvertising

Molto spesso un semplice video pubblicitario, realizzato con una filosofia femvertising, diventa il cuore di accese discussioni sul ruolo delle donne nella società e sugli effetti devastanti degli stereotipi di genere.

Ne è un esempio la campagna "Real Beauty" creata da Dove. Da anni il brand promuove la bellezza autentica, incoraggiando le donne ad abbracciare la propria individualità e a respingere gli standard irrealistici imposti dai media. Le protagoniste scelte hanno diverse fisicità e sono di varie nazionalità: in questo modo le spettatrici possano identificarsi nei corpi non ritoccati di modelle con forme e bellezze diverse. 

Always, brand di prodotti per l’igiene intima femminile, è stato premiato ai Femvertising Awards con l’iconico spot Always #LikeAGirl. Nel 2014, infatti, fu lanciato uno spot in cui l'obiettivo era far riflettere lo spettatore sugli stereotipi di genere. Spesso fare qualcosa “come una ragazza” è percepito come un insulto. Invece, nel video si chiede a donne, uomini, bambini e bambine “Come corre una ragazza?” oppure “Come lancia una ragazza?”. Si mostrano poi le reazioni degli intervistati con atteggiamenti molto diversi tra loro, confrontandoli per genere ed età. Un vero e proprio esercizio di consapevolezza.

Il caso Barbie

Nel 1959 debuttava sul mercato Barbara Millicent Roberts detta Barbie, una bambola di plastica, alta 25 centimetri, destinata a rivoluzionare l'immaginario e le camerette delle bambine per i successivi decenni. Ancora oggi è un mezzo per leggere lo spirito del tempo. Quando la ideò, Ruth Handler non aveva idea che la sua Barbie avrebbe acquisito le fattezze di star del calibro di Cher, Beyoncé, Marilyn Monroe, e delle italianissime Samantha Cristoforetti ed Elisa.

Oltre ad essere belle bambole, desideratissime, col tempo le Barbie sono diventate anche uno strumento di inclusione e ispirazione, omaggiando alcune donne che hanno fatto la storia dell'emancipazione, come Frida Kahlo e Katherine Johnson. Anche questo è femvertising: usare una bambola per raccontare le conquiste femministe e ispirare le donne del domani. Ma non solo.

Le conquiste del femvertising

Diciamolo: il femvertising è una vittoria per le donne. L'industria che da sempre sfrutta il desiderio dei consumatori, legandolo a una figura sessualizzata e angelicata della donna, fa ammenda e mette al centro messaggi di empowerment e di cambiamento.

Le minoranze diventano visibili. Si cerca di sensibilizzare le masse, portando temi femministi – tradizionalmente relegati ai margini – al centro delle conversazioni globali. Ma soprattutto c'è una inversione di rotta. Laddove un tempo la pubblicità si limitava a oggettivare il corpo femminile, oggi molte aziende puntano su uno storytelling che celebra la forza, l’autonomia e la complessità delle donne.

Ma c'è un risvolto poco piacevole della medaglia. Infatti, per molti il femvertising nasconde una strategia calcolata per sfruttare il movimento femminista a fini commerciali, creando una sorta di pinkwashing o femwashing.

Prima di tutto, molto del femvertising in circolazione tende ad appropriarsi dei messaggi di empowerment senza un reale impegno concreto da parte delle aziende. Dietro i sorrisi e gli slogan, non di rado si nascondono dinamiche aziendali tutt’altro che “femministe”, magari basate su disparità salariale o sfruttamento delle lavoratrici nei paesi in via di sviluppo.

Inoltre, i messaggi possono anche essere molto superficiali. Alcune campagne si limitano a rappresentare immagini di donne “potenti” senza affrontare le cause strutturali della disuguaglianza. Il risultato è un empowerment “cosmetico”, che non mette realmente in discussione i sistemi che opprimono.

Infine, sempre più marchi cercano di “saltare sul carro” del femvertising, rischiando però di cadere nel tokenismo, ovvero quel fare sforzi superficiali e simbolici, mirati all'inclusione di persone di gruppi minoritari (donne comprese), al fine di apparire moderni e sensibili al tema, ma senza profondere un reale impegno nella causa. 

Femminismo da copertina o leva di cambiamento?

Il femvertising rappresenta uno specchio della società contemporanea. Da un lato, i brand hanno compreso la necessità di lanciare un segnale che mostri una crescente sensibilità verso i valori dell’uguaglianza di genere e della necessità di stare dalla parte di tutto ciò che aumenta l'empowerment femminile. Dall’altro, è il riflesso di un mondo dominato dalla logica di mercato. Forse, la vera sfida non è combattere il femvertising finto, ma estendere il dibattito, chiedendo trasparenza e coerenza ai brand che si dichiarano “amici” delle donne. 

Chiediamo di più ai brand che vogliono solo insinuarsi nel nostro portafogli. Perché - è bene ricordarlo - anche fare la spesa, scegliendo un marchio invece di un altro, è un atto politico.

Foto di apertura: Freepik