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Squid Game: cosa può insegnare agli adolescenti, 14anni+

Come la serie tv più controversa e criticata del momento possa diventare per gli adolescenti occasione di crescita e apprendimento di insegnamenti preziosi.

Come la serie tv più controversa e criticata del momento possa diventare per gli adolescenti occasione di crescita e apprendimento di insegnamenti preziosi.

Squid Game è un k-drama (ovvero un Korean Drama) in formato serie televisiva, è già valso a Netflix 142 milioni di spettatori determinando diversi fatti di costume, persino oggetto di polemiche e aspre critiche.  

La serie è stata classificata come VM 14 pertanto la visione è lecita a partire dal 14esimo anno d’età; una fruizione precoce di questo drama può avere conseguenze sfavorevoli e destabilizzanti anche nel lungo termine. È presumibile che un bambino più piccolo non colga i significati nascosti dietro le molte allegorie, i tanti rimandi e le diverse evocazioni cine-letterarie, nonché lo specchio psicologico e psico-sociale della serie.

In questa sede non ci soffermeremo sugli effetti negativi di una visione abbandonata compiuta dagli under 14. Salva la responsabilità dei genitori di monitorare l’accesso alla rete dei figli, qui analizzeremo ciò che manca nel fitto bosco della opposizione alla serie, ovvero tratteremo degli insegnamenti che da Squid Game possono trarre i ragazzi più grandi (14 anni e più).

I preadolescenti, già scaltri, già resilienti e già svezzati alla distinzione tra finzione e realtà, se ben accompagnati nella presa di coscienza e nella visione della serie, possono trovare spunti importanti di riflessione.

Ricordiamo che 14 anni è l’età della scuola superiore, della pubertà, delle prime importanti esperienze di autonomia fisica, critica e emozionale. Questi piccoli uomini e queste piccole donne possono ben capire e comprendendo possono persino diventare parte attiva di un mondo che cambia divenendo, se possibile, migliore.

Squid Game è una visione complicata, è importante dare ai ragazzi i giusti strumenti di partenza per comprenderla.

Si tratta di un Korean Drama, un formato televisivo (generalmente a puntate, ovvero impostato come serie televisiva) nato sullo stile dei già noti drammi giapponesi. Le narrazioni dei k-drama sono organizzate intorno a temi emotivamente toccanti (appunto temi drammatici), tal volta romantici e-o sentimentali. Squid Game si distingue dagli altri Korean Drama per la pregnanza sociale e l’adesione a tematiche politico-culturali.

Un ruolo centrale lo ha la mimica facciale che nella cultura coreana ha un grande valore espressivo e dimostrativo.

Il numero 456 di Squid Game, in modo particolare, si distingue per la mimica forte e accentuata.

Agli occhi di un occidentale le sue “facce” possono apparire persino comiche, sono, invece, una caratteristica che sottolinea il ruolo centrale del viso inteso come “maschera della vita”. La mimica di Squid Game va considerata nel rispetto di una cultura peculiare che ha una diversa metrica di manifestazione e espressione delle emozioni.

Il regista ha affogato il cuore nel suo stesso drama e nello scrivere la sceneggiatura ha attinto dalle esperienze personali: dopo il crollo finanziario globale che ha investito la Corea alla fine degli anni 2000, anche l’artista ha vissuto la povertà, né lui né la madre lavoravano e per sopravvivere la famiglia ha dovuto indebitarsi. 

Hwang Dong-hyuk ha dichiarato a Il Messaggero:”Ero in grandi difficoltà finanziarie perché mia madre si è ritirata dalla società per cui lavorava. Abbiamo dovuto contrarre prestiti, mia madre, io e mia nonna”. 

Squid Game - analizziamo il contesto in cui si cala la narrazione

Sono 456 i partecipanti alla competizione di Squid Game, l’accostamento ai gladiatori nell’arena è quasi naturale e si massimizza quando fanno il loro ingresso in scena i Vip.

I Vip, potenti e facoltosi, osservano il gioco in bilico tra vita e morte, assumono un atteggiamento “ludico” capace di ridurre l’uomo ad oggetto e il suo agire a svago.

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I lottatori, ovvero i 455 “più uno” (di cui non vale la pena dire altro per non scivolare nello spoiler), vengono reclutati nelle frange estreme della società, scovati nelle sacche della povertà, destati dal torpore del fallimento e della miseria, insomma sono gli ultimi, ma non necessariamente i “nativi disperati”.

Alcuni di loro hanno visto la sfortuna arrivare, hanno sentito il terreno cedere e hanno perduto equilibrio e stabilità, del resto non è raro che la fortuna soccomba alla disgrazia ribaltando la vita in modo irreparabile.

I 456 sono tutte “vittime volontarie di un rapimento”, una volta entrati nel gioco la loro esistenza diventa un esperimento sociale condotto sotto la minaccia delle armi brandite da misteriosi uomini mascherati al cui comando vi è un ancor più criptico Front Man.

L’esercito di guardie ricorda il braccio armato di una dittatura, sembra che manchi ogni spazio per l’umanità sommersa, fagocitata e perduta nella rivalità e nel sangue. Il gioco finisce con l’ultima morte, la serie finisce quando il gioco si impossessa della vita sorpassando gli affetti e neutralizzando persino il fascino del danaro.

Analizziamo i temi espressi e i valori nascosti dentro Squid Game

La violenza ha sempre più volti e dietro quello di facciata c’è il volto del dolore e della disperazione.

Nell’antichità le Olimpiadi nacquero come catarsi: lo sport emulava la guerra positivizzando lo scontro e riportandolo su piani differenti.

Tutto ciò, però, non ha mai potuto fermare i conflitti e le atrocità se non per un tempo compreso tra la fiaccola olimpica e la fine dei giochi, una parentesi nell’esistenza umana di cui il conflitto resta parte.

I 456 affrontano giochi poveri, non solo un, due, tre, stella, anche le biglie, piuttosto che il gioco del calamaro (Squid si traduce proprio in calamaro) paragonabile alla più nostrana campana, ovvero un gioco tracciato con il gesso sull’asfalto e affrontato dai bambini nella libertà dell’infanzia.

La manipolazione dei giochi poveri, che in Squid Game diventano atti di violenza, può rappresentare ai ragazzi come la violenza non appartiene agli strumenti e alle cose in sé quanto al loro uso: ogni cosa può essere usata bene o male e pertanto noi stessi ne siamo responsabili.

Ad uno sguardo superficiale tutti i 455 (a cui qui non è possibile aggiungere l’uno che rivelerà la sua specialità alla fine della serie e in circostanze estremamente di effetto) sembrano complici del massacro dei concorrenti che continuano a perdere la vita. In realtà ciascuno di questi disgraziati è membro di una società diversa dalla nostra: in Corea il valore del ruolo sociale, la gerarchia, l’ordine e il rispetto del proprio compito sono essenziali. Una volta assunto il ruolo di “vittima” ciascun concorrente lo interpreta nell’ottica della cultura coreana vivendolo come riscatto.

Di fatto i nostri ragazzi hanno qui l’opportunità di comprendere che non può esservi riscatto senza rispetto dell’altro, che nessuna società può resistere a se stessa senza il riconoscimento dell’uguaglianza.

E quelle guardie dai volti nascosti dimostrano che la responsabilità non può essere cieca obbedienza. L’uomo che perde di vista la natura umana dell’errore è già un uomo smarrito.

Una visione accompagnata e condivisa di Squid Game può consentire ai nostri giovani di reinterpretare il senso del fallimento comprendendo che solo da esso può partire una rinascita. L’uomo che cade nel fango non è sporco nell’animo ma solo sulla pelle, infanga la sua anima se affonda nel torbido anziché reagire.

Ciascuno dei 456, ciascuno dei Vip, ciascuna guardia e primo fra tutti il Front Man avrebbero potuto scegliere diversamente. È questo il messaggio che deve passare ai nostri ragazzi: una visione accompagnata e critica di Squid Game dimostra che l’uomo non può liberarsi della sua umanità, tra tutti vince il solo personaggio che l’ha preservata fino alla fine del gioco; malgrado la paura, il dolore e il terrore abbiano spesso avuto il sopravvento. Tuttavia è comunemente più facile uccidere l’umanità piuttosto che averne cura.

No alla censura, sì alla comprensione

Mentre si inneggia alla censura di Squid Game, vale la pena ricordare “Rhythm 0”, una performance dell’artista Marina Abramović che dimostrava, già nel lontano 1974, come l’uomo è figlio della sua stessa violenza o, per meglio dire, frutto della singolare capacità di scegliere per se stesso cosa fare dei propri istinti.

Correva l’anno 1974, un’epoca fuori dalla rete e senza grandi casse di risonanza mediatica, presso la galleria Studio Morra di Napoli, Marina Abramović metteva in scena una performance a rischio vita:  

la donna si faceva strumento e posizionandosi immobile al centro di una sala della galleria assumeva l’atteggiamento statico di una statua vivente. Poco lontano da lei, un lungo tavolo accoglieva 72 oggetti diversi, alcuni innocui e positivi, altri capaci di nuocere (fiori, piume, acqua, pane, un profumo, una rosa e del miele, ma anche un coltello da cucina, un coltello tascabile, una sega, uno scalpello, delle catene, un’ascia e perfino una pistola funzionante e caricata con proiettili veri). 

Un cartello elencava le regole del gioco in questo modo e in quest’ordine: “Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate. Io sono l’oggetto. Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio. Durata: 6 ore, dalle 20:00 alle 2:00”.

Così Marina era la numero 0 di uno Squid Game di altri tempi. Inizialmente i partecipanti al gioco trattavano il corpo della donna con umanità, ma col passare dei minuti la postura immobile dell’artista e la assoluta mancanza di reazioni da parte sua determinavano il pubblico a usarla come un oggetto e le piume lasciavano spazio ai coltelli.

La cronistoria della performance racconta di una Abramović che rimaneva sempre più esposta: i vestiti che indossava venivano fatti a brandelli con i coltelli, il suo corpo veniva violato, palpato, ferito, lacerato e la rosa, malgrado il suo simbolismo romantico, le squarciava le carni sotto la pressione delle mani umane che ne spingevano le spine dentro la pelle e fino a vedere il sangue.

Solo le lacrime dell’artista ne ricordavano l’umanità, malgrado ciò qualcuno le mise in mano persino la pistola e modellò le braccia perché l’arma puntasse al collo. Tutto questo non è accaduto in una serie televisiva.

Alla fine della performance il corpo dell’artista era trasmutato, profondamente violentato, immensamente tormentato, ma quando si mosse tra il pubblico con rinnovata umanità nessuno dei suoi aggressori ebbe il coraggio di guardarla negli occhi. Fu come se l’umanità ridestata avesse riportato in equilibrio socialità e violenza rimettendo quest’ultima nel cassetto dell’illecito, proprio lì da dove era fuggita con la complicità di quelle regole che tutto avevano permesso. La memoria di questo evento deve essere monito.

In conclusione, guardate Squid Game con i vostri figli adolescenti (14 anni +) può valere ad educarli non alla negazione della violenza ma alla gestione della vita e dei sentimenti in nome dell’umanità.

Nessuno dei “456 di Rhythm 0“ era un attore, ciascuno di loro avrebbe meritato una riflessione sul valore dell’empatia e sulla umanità.

Foto©rokastenys/123RF.COM