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Chloe Facchini: «Sono una donna transgender, e sono come voi»

Chef bolognese ospite di È sempre mezzogiorno, è tornata in tv dopo la transizione. Per sentirsi finalmente libera e lanciare un messaggio importante. Il ddl Zan? “Una legge di buonsenso. Odiare non è un’opinione”. 

Chef bolognese ospite di È sempre mezzogiorno, è tornata in tv dopo la transizione. Per sentirsi finalmente libera e lanciare un messaggio importante. Il ddl Zan? “Una legge di buonsenso. Odiare non è un’opinione”. 

È tornata in tv meno di un mese fa, mostrandosi al suo affezionato pubblico per la prima volta come donna. Lo ha fatto per sé stessa ma anche per gli altri, immaginando che qualche giovane potesse essere ispirato da lei nel trovare il coraggio di per fare coming out
Chloe Facchini, 41 anni, chef bolognese ospite fissa del programma di Antonella Clerici È sempre mezzogiorno fino a pochi mesi fa era Riccardo. Nel 2018 ha iniziato un percorso di transizione dopo aver capito, in terapia, di avere “problemi di identità di genere”. Riccardo per 39 anni ha creduto di essere gay, ma si era sempre sentito intrappolato in quel corpo maschile. Dopo aver intrapreso un percorso psicologico ha capito di voler diventare una donna transgender. Per sentirsi finalmente libera.

Il 17 maggio scorso, in occasione della Giornata Internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, Chloe è tornata davanti alle telecamere di Rai Uno insieme ad Antonella Clerici raccontando della sua transizione. 
“Alcuni di voi non approveranno la mia scelta, ma sono convinta che chi mi ha apprezzato come Riccardo continuerà a farlo con altrettanto amore anche in questo momento”, aveva scritto su Instagram qualche giorno prima di andare in onda. Fortunatamente, e con sua grande gioia, i messaggi sono stati positivi e unanimi. 

Chloe, com’è andata il ritorno nel programma?
Benissimo, ho avuto un riscontro estremamente positivo, a riprova del fatto che la comunità gender è sempre più visibile, e che c’è bisogno di immagini positive. Dobbiamo far capire che non scendiamo dalla luna, siamo persone come voi. Ho voluto fare coming out pubblicamente per lanciare questo messaggio. 

Tra l’altro il pubblico di È sempre mezzogiorno è composto soprattutto da pensionati. Un bel segnale di apertura, no?
Assolutamente, considera che il pubblico è lo stesso de La Prova del Cuoco, dove mi conoscevano come Riccardo. Nulla è cambiato, l’affetto che mi veniva dimostrato prima non è mutato in funzione della mia identità di genere. L’ho trovato un messaggio molto positivo per la comunità LGBT, perché ci sono purtroppo ancora tanti ragazzi gay e lesbiche che temono di essere emarginati. Io stessa oggi non mi faccio influenzare dai giudizi e dalle critiche, sono una persona forte, ma questo non vuol dire che non abbia sofferto. 

Hai un compagno da un paio d’anni. Come ha vissuto la tua transizione?
Quello con Maurizio è stato il coming out più difficile. Mi ha conosciuto come uomo gay, quindi temevo potesse dirmi: “Ti amo, ma sono gay quindi non voglio stare con una donna”. Invece ha reagito benissimo. Mi ha rassicurata, dicendomi che mi amava come persona e non per il mio corpo. 
Stiamo insieme dal 2019, pensa che bel regalo: l’ho incontrato nel giorno del mio compleanno.

Quanti coming out hai fatto fino a oggi? Il primo fu con la tua famiglia?
Almeno tre. Il primo avvenne quando a 18 anni dissi a mio padre di essere gay. Fu veramente difficile, negli Anni 90 era un tema decisamente tabù, la parola “gay” si pronunciava ancora sottovoce. 
All’epoca vivevo in Francia, mio padre venne a trovarmi, mi fece alcune domande. Mi trovai a dover decidere: o negare quello che ero e vivere una vita non mia, di infelicità, oppure dire la verità. Ho scelto la verità, che può essere dolorosa ma ti rende libera.
A parte i primi momenti di sconcerto di mio padre, andò tutto bene.

E i coming out successivi?
Il secondo è stato quello in quanto persona transessuale con Maurizio e la sua famiglia.
L’ultimo quello via social e in tv dopo la transizione: mi sono sentita rinata, era un tassello importante che mi mancava. Non puoi immaginare che liberazione.

Il resto della tua famiglia ti ha sempre capita e accolta?
Sono stata fortunata, nonostante la mia non fosse una famiglia regolare (mia madre aveva problemi di salute, sono stata cresciuta da mia nonna) sono sempre stata accettata. Il mio problema era che definirmi “gay” per me non era sufficiente. Essendo cresciuta negli Anni 80 e 90, non sapevo nemmeno cosa significasse essere una persona transessuale, quindi mi definivo omosessuale. 
Quando poi ho conosciuto la comunità trans ho capito che mi ero sempre sentita una donna. 

Parliamo di cucina. Hai un ruolo apicale all’interno del ristorante… Hai notato cambiamenti in quanto chef donna?
No, non ho ricevuto nessuna differenza di trattamento. La mia squadra mi conosceva già e mi rispettava in quanto chef. Il fatto che abbia avviato un percorso di transizione e oggi sia una professionista donna non ha cambiato nulla, anzi, probabilmente ho cambiato io il modo di relazionarmi. Non stando bene con me stessa, prima ero una persona più chiusa, aggressiva e competitiva. Adesso noto che anche le persone che lavorano con me sono più felici, più stimolate. 

Quali sono secondo te gli stereotipi più diffusi sulle persone transgender?
Penso che l’equivoco nasca dal fatto che nell’immaginario collettivo una persona trans non conduce una vita di tutti i giorni come una persona cisgender. La comunicazione nel raccontarci è sempre stata fuorviante: il mondo trans dai media viene presentato come una comunità che vive prevalentemente di notte, che appartiene mondo della prostituzione. È vero che alcune ragazze trans sono obbligate a prostituirsi per vivere, ma è anche vero che più del 90% di noi conduce una vita assolutamente regolare. 

Cosa potrebbe aiutare a cambiare la narrazione in questo senso?
Per esempio sarebbe importante mettere mano a quelle leggi che regolamentano il cambio anagrafico, oltre all’introduzione a livello ministeriale della carriera Alias nelle scuole… Si tratta di un protocollo che ad oggi viene adottato individualmente dagli istituti scolastici. Prevede che i genitori vadano dal preside spiegando: “Mio figlio è trans quindi non vogliamo che venga chiamato con il suo nome anagrafico femminile, ma maschile”. Questo comporterebbe ad esempio che durante gli appelli di classe venga usato il nome di elezione al posto di quello anagrafico. In questo modo i fenomeni di bullismo si ridurrebbero drasticamente, e una scolarizzazione più serena consentirebbe un inizio più favorevole nel mondo del lavoro. 

Oggi il dibattito sul Ddl Zan è molto acceso. Perché la politica si spacca ancora sui diritti civili?
Molti politici rivendicano il diritto di esprimere le proprie opinioni, ma molto spesso non si tratta di opinioni: piuttosto di libertà di insultare, di incitare all’odio. Quella non è libertà di pensiero. Se fomenti l’odio e si verificano fenomeno di violenza o omotransfobia, è importante che si possano punire con un’aggravante. A me questa sembra solo una legge di buonsenso. La libertà di insultare non può e non deve esistere.

La destra condanna la violenza omotransfobica, ma non vuole riconoscere il concetto di “identità di genere”…
La trovo un’assurdità. Riconoscere lo spettro di genere delle persone non significa certo distruggere il concetto di famiglia che, anzi, viene semplicemente ampliato. 
La destra che si oppone al ddl Zan insinua nei cittadini paura e terrore, e quando si ha paura ci si chiude in sé stessi, il risultato è che la comunità LGBT in questo modo viene conosciuta sempre meno. 

Tu ti batti perché questo non accada.
Esatto, io proprio per evitare questo promuovo il dialogo. Dobbiamo sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso la divulgazione.
Oltre a cucinare in tv parlo di me pubblicamente per raccontare questa mia, nostra, realtà. Mi reputo una persona normale, che fa una vita normale: cos’ho di diverso rispetto agli altri?
Lavoro come tutti, ho un compagno… l’unica cosa è che non mi vuole sposare! (ride, ndr).

Cosa vorresti dire a chi vorrebbe intraprendere un percorso di transizione?
Prima di tutto di affidarsi a un buon centro pluridisciplinare (in Italia purtroppo ce ne sono pochissimi, io sono seguita all’ospedale Careggi di Firenze). Poi è importante intraprendere un percorso di terapia con un bravo psicologo, e soprattutto non affidarsi al fai da te per quanto riguarda la terapia ormonale: gli ormoni possono essere prescritti solamente da un endocrinologo, diversamente si mette a rischio la salute. È un percorso tutt’altro che semplice, ma rende felici.