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Berardino Palumbo: «George Floyd e il razzismo tra Europa, Italia e America»

Come ha cambiato pelle il razzismo? E ha ancora senso parlare di razze? L'intervista all'antropologo Berardino Palumbo. 

Come ha cambiato pelle il razzismo? E ha ancora senso parlare di razze? L'intervista all'antropologo Berardino Palumbo. 

La razza non esiste. Eppure tutti i gruppi umani tendono a discriminare se stessi dagli altri. Per quale motivo? Esploriamo il fenomeno del razzismo assieme a Berardino Palumbo, Professore ordinario di Antropologia Sociale nel Dipartimento COSPECS dell’Università di Messina. Dalla nascita ai nostri giorni, dall'Europa all'America, da “Faccetta nera” a George Floyd.

Come nasce il razzismo?
«Il razzismo in quanto fenomeno sociale è un fenomeno ottocentesco e soprattutto della prima metà del ‘900. E nasce dalla ripresa di teorie classificatorie dell’umanità, sviluppate a partire dal ‘700. Nell'’800 trova una sua diffusione sul piano scientifico e poi su un piano di senso comune, mentre nel corso del ‘900 diventa una teoria sociale e politica che cerca di legare certi tratti morfologici che sono alla base delle classificazioni scientifiche ad aspetti psicologici e culturali degli esseri umani. A quel punto diventa quella teoria sociale e politica che è alla base dello sviluppo di teorie razziste».

Esiste davvero la razza?
«L’esigenza di classificazione nasce a metà ‘700 perché c’è la volontà di dare una sistematizzazione alla molteplicità delle forme di umanità che si trovano nel mondo. Questa sistematizzazione viene fatta a partire da classificazioni di tratti morfologici grazie al contributo del naturalista Georges-Louis Leclerc de Buffon. Il DNA non c’entra: il concetto di razza è un concetto che non ha a che vedere con il DNA, ma con le forme o alcuni tratti morfologici che i gruppi umani presentano differentemente nel mondo. Il tipo di capelli, la forma del naso, la forma del cranio, il colore della pelle, diventano elementi di classificazione degli umani. Questa classificazione in sé non è razzismo, è semplicemente una classificazione razziale. Nel corso dell’800, poi, in particolare nei primi 2-3 decenni del ‘900, a questa classificazione si associano delle gerarchie esplicite tra le razze che vengono a fondare differenze. A quel punto già si potrebbe parlare di razzismo».

Perché queste differenze hanno assunto un’accezione negativa?
«Tutti i gruppi umani tendono a discriminare se stessi dagli altri. La parola barbaro - ad esempio - è greca e viene da quelli che non sanno parlare il greco ma fanno bla bla. Le teorie razziali a un certo punto si iscrivono in una visione del mondo fondata sul progresso e sull’evoluzione. Quando la classificazione inventa delle razze su base morfologica, con l’idea che alcuni gruppi umani sono superiori ad altri, e alcuni sono progrediti e altri meno, si creano le basi per il razzismo. Ad un certo punto cioè, ci si chiede “ma perché qualcuno è andato avanti e qualcuno no? Perché qualcuno è più evoluto di qualcun altro?” La spiegazione che viene fornita è “perché sono razze diverse” e che vuol dire che sono razze diverse, che sono morfologicamente diverse? Si! Ma sono anche dotate di minore capacità intellettuale».

Possiamo sfatare questo mito?
«Il mito è stato sfatato già in vari ambiti scientifici, in biologia e genetica dalla metà del’900. La morfologia e la cultura sono due fenomeni separati: gli esseri umani hanno tutti le stesse capacità cognitive e la cultura non ha nulla a che vedere con la razza. Hanno delle culture diverse e queste culture non hanno nulla a che vedere con la morfologia. Io e un signore dalla pelle nera non possiamo essere geneticamente più vicini di quanto io non possa esserlo a una persona come me in Puglia o a Napoli. Dal punto di vista del DNA non esistono le razze. Questo significa una cosa molto semplice: la specie umana al di là dei tempi di sviluppo delle differenze morfologiche, della pelle e di altri tratti, è sempre mescolata».

Si parla spesso di discriminazioni nei confronti delle “minoranze”, pensiamo ad esempio agli ebrei, oppure ai rom, ma minoranza di fatto vuol dire di numero inferiore. Faccio fatica, quindi, a collegare le persone con la pelle scura ad una minoranza, mi sembra che anche questo termine abbia assunto un’accezione negativa…
«La minoranza è concepita come pericolosa perché estranea e interna al proprio mondo. Mentre un nero può stare in Africa, un ebreo che si muove o un rom che si muove stanno tra di noi. È l’essere estraneo dentro un sistema organizzato che pone il problema. Un problema, per capirci, di nemico interno. I sistemi statali si organizzano a partire dalla definizione di una somiglianza, noi siamo “fratelli d’Italia”, ma uno che non è un fratello cos’è? È un problema. Normalmente chi occupa delle posizioni minoritarie tende a essere messo ai margini del sistema di classificazione. Il margine è pericoloso e quindi se io ti metto nel margine che tu sia minoranza culturale per esempio, ti sto mettendo in una posizione di possibile eliminazione. L’Europa, l’Occidente ha attribuito valori negativi alle minoranze ed è stato pronto a eliminarle o a prenderle come capro espiatorio quando è stato il momento di farlo come nel caso degli ebrei».

Mi viene da pensare che è la paura dello straniero, di qualcosa che non conosciamo a rendere le persone razziste. Eppure anche un francese, uno svedese o un austriaco sono stranieri rispetto a noi. Che cosa, dunque, vede una persona quando si trova di fronte ad un’altra con la pelle scura e perché?
«L’Africa costituisce un mondo rispetto al quale noi abbiamo rapporti storici, sui quali l’egemonia occidentale si è applicata in maniera molto forte nel corso del tempo. La pelle nera è un elemento che marca, ma perché noi tendiamo a immaginare l’Africa come a un continente privo di civiltà, facciamo fatica a immaginare che una parte importante della storia egiziana è stata fatta da Nubiani, quindi da Africani, quindi gente con la pelle scura, tendiamo a immaginare gli egiziani come Cleopatra. Quindi è il contesto che determina la discriminazione: per noi il nero è l’emblema, l’icona se vogliamo, di un’alterità inferiore. Non dimentichiamo che noi ci portiamo dietro una storia come quella del fascismo che ha costruito sull’inferiorità dei neri e degli africani una propria espansione coloniale. Quindi, secondo me, l’accentuazione della discriminazione nei confronti del nero in Italia è legata a questa storia».

Come è cambiato il razzismo nel tempo?
«Oggi si è razzisti non più in riferimento alla razza. Anche il peggiore dei razzisti italiani difficilmente dirà “quello è inferiore perché è di razza diversa”: sa che non si può dire più e lo sa anche il senso comune. Quando uno dice “io non sono razzista, ma…” vuol dire “non lo posso dire pubblicamente però quello non mi piace”. Il concetto che serve oggi a spiegare in termini discriminatori la differenza è paradossalmente la cultura: quello ha una cultura diversa dalla mia. E questo è un altro problema, perché il concetto di cultura fu inventato dagli antropologi americani proprio per consentire l’integrazione, oggi invece viene adoperato dai neo-fascismi e dai neo-nazismi europei per bloccare qualsiasi forma di integrazione: la mia cultura è questa, la tua cultura è un’altra, non c’è connessione. Falso! Le culture sono dei processi, non sono delle cose, sono dei mescolamenti continui. Le culture si imparano, le culture si mescolano, le culture non sono oggetti puri, sono oggetti impuri, sporchi. Non servono per dividere, servono per unire. I neo-fascismi europei adottano delle teorie che hanno effetti razzisti ma non utilizzano più il concetto di razza perché sanno che è bruciato: quello italiano, quello inglese della destra radicale estremista, quello del vecchio fronte nazionale di Le Pen, della Lega italiana così come quello del partito che fa nascere Haider in Austria».

Effettivamente anche se siamo convinti di non essere assolutamente razzisti c’è qualcosa che scatta in noi quando per strada incrociamo una persona di una nazionalità “sospetta”…
«Certo, il problema è quando dobbiamo interagire concretamente con concreti esseri umani. Va anche detto che c’è un ritardo enorme nel nostro sistema comunicativo. I media contengono quello che alcuni studiosi hanno chiamato“razzismo implicito”. Perché, per esempio, le previsioni del tempo devono iniziare sempre dal nord in Italia? Sarebbe bello se le nostre previsioni i media le facessero a seconda del vento. Nel nostro sistema di classificazione è naturalizzato il fatto che si parta dal nord e si arrivi al sud, ma non c’è scritto da nessun parte. Il sistema mediatico è fortemente influenzato da implicite assunzioni ideologiche sulla diversità e quindi dalla gerarchia implicita delle diversità. Una collega, Paola Tabet, fece questa cosa: lei ha due figli adottati neri che a scuola subivano continuamente atteggiamenti razzisti da parte dei docenti e dei compagni. Li ritirò, però mandò un questionario a tutte le scuole italiane in cui bisognava fare ai bambini questa domanda: “cosa faresti se tuo padre e tua madre avessero la pelle nera?”. Le risposte dei bambini sono state trasposte in un libro, “La pelle giusta”, pubblicato da Einaudi, ed erano interessantissime: “se mio padre e mia madre fossero neri li metterei nella lavatrice cercando di sbiancarli”. Allora… da qualche parte devono aver appreso questo tipo di atteggiamento, da dove l’hanno appreso? In casa, dalla cultura di base. La cultura di base italiana, secondo me, è ancora fortemente discriminante».

Com’è possibile che dopo secoli di storia, scienza, studi, ancora oggi esistano discriminazioni razziali?
«È possibile per varie ragioni. Una è che il razzismo ha cambiato pelle, oggi non si usa più la categoria di razza per discriminare, ma si immagina l’esistenza di culture chiuse in se stesse, le une diverse radicalmente e incomparabilmente dalle altre. Si discrimina, ma non più su base biologica, ma paradossalmente su base culturale, e questo è un primo passaggio.
Due, non sono scomparse le ragioni politiche che sono a fondamento della discriminazione razziale culturalista, che è quello di una presunta supremazia dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Questo è sempre meno vero… se dovessimo immaginare un mondo da qui a 50 anni, io non lo immaginerei con un’egemonia posta sulla costa ovest degli Stati Uniti, la immaginerei con un’egemonia tra la Cina e le tigri asiatiche».

Veniamo al caso Floyd, l’America sembra essere per molti ancora un sogno, la terra della libertà, eppure succedono atti discriminatori molto forti, che assumono ancora più importanza quando c’è in gioco il potere, pensiamo al binomio uomo nero/poliziotto. Un suo pensiero su questo.
«La situazione degli Stati Uniti è complessa, nel senso che lì la storia dei neri è una storia legata all’immigrazione per schiavitù e l’abolizione della schiavitù non ha mai significato un vero cambio di stato dei neri degli Stati Uniti. Questa storia fa si che negli Stati Uniti la linea del colore bianco/nero sia anche una linea di classe: i neri sono l’underclass, il sotto proletariato tende a coincidere con il mondo afro. Questo non significa che non ci sia un elite afro americana, assolutamente, c’è ma non è la maggioranza. I neri sono discriminati, i neri sono poveri. C'è un sistema di polizia che tende a controllare, un sistema estremamente legato alla repressione, che tende a essere la punta dell’iceberg di un’attitudine di fondo. E' un contesto complesso in cui globalmente i neri occupano la base della società, il fondo. Basta girare per una città degli Stati Uniti e lo percepisci subito, laddove la linea di colore corrisponde a quartieri e parti della città e laddove inizia la zona povera della città».

In America stanno manifestando in ogni dove, le persone si sentono coinvolte in prima persona, noi Europei e italiani all’inizio abbiamo manifestato in rete pubblicando un’immagine tutta nera con l’hashtag #blackouttuesday, che cosa ne pensa di questa forma di protesta telematica?
«La piazza informatica è una piazza, quindi è bene che anche lì ci siano manifestazioni. Quello che mi ha colpito di più è che, quando avvengono in rete, le manifestazioni razziste sono fortemente stigmatizzate. E' come se ci fosse qualche livello di controllo maggiore di questi sistemi rispetto alle piazze reali, e questo lo trovo un aspetto positivo. Io trovo positivo sia che si manifesti anche nelle piattaforme informatiche, sia il fatto che in queste piattaforme ci siano delle forme di controllo, di cose che non andrebbero detto e non andrebbero dette».

Il DNA degli italiani è il risultato di un mix di molteplici discendenze provenienti per esempio dall’Africa, dal Medio-Oriente... Da dove ha origine il razzismo nel nostro Paese?
«Intanto non adopererei la metafora del DNA perché è appunto una forma di naturalizzazione. Nel DNA la cultura non c’è e quindi è nella storia dell’Italia e degli Italiani che, nonostante ci sia un continuo mescolamento, c’è anche una maggiore tendenza alla chiusura rispetto ad altri contesti. Io direi che l’origine è nella storia recente direi, negli ultimi 2 secoli della storia italiana, nel non aver fatto mai i conti realmente con l’eredità del fascismo e con l’eredità del razzismo. In fondo l’Italia è un paese che ha prodotto delle leggi razziali come la Germania».

Un veloce parallelismo tra razzismo in Italia e razzismo in America.
«Le ragioni dei due razzismi e le modalità con cui si manifestano e i contesti intellettuali dentro i quali prendono vita sono profondamente diversi. Da noi non c’è stata la presenza schiavista, se non in epoche più antiche, rispetto a quella in cui si è manifestata negli Stati Uniti. I poveri non sono i neri, i poveri spesso sono i meridionali, quindi si applicano forme di discriminazione razzista a prescindere dalla linea di colore. Basti pensare al modo in cui i meridionali sono stati descritti, classificati in tutta una letteratura di natura scientifica, narrativa, giornalistica e nel senso comune, quindi le storie poi sono diverse e quindi le modalità e gli ambiti su cui delle attitudini che possono anche essere accomunate, vanno ad applicarsi sono diverse. Bisognerebbe contesto per contesto, avere una consapevolezza di ciò che questi meccanismi sono e di come operano, e poi però la capacità analitica di differenziare».

C’è qualcosa che possiamo fare per cambiare lo stato delle cose? Da dove possiamo partire?
«Secondo me bisognerebbe partire dalla scuola e dall’educazione. Ma non basta dire ciò che non si deve fare, bisogna avere la capacità di entrare dentro la macchina della produzione della differenza della gerarchizzazione, cioè la discriminazione dell’altro. Bisognerebbe entrare nella modalità di plasmazione del senso comune, quindi l’educazione, il sistema mediatico, le grandi professioni. Bisognerebbe rieducare medici, avvocati, giuristi, economisti, a un sistema capace di diventare critico dei propri presupposti impliciti. Il razzismo vero, quello che oggi è razzismo, non è tanto “quello è nero e quindi sicuramente è biologicamente inferiore”; è pensare di essere per un qualsiasi tratto culturale superiore e lì bisognerebbe entrare e scardinare, come? Attraverso una maggiore consapevolezza antropologica e, qui dico una cosa che in qualche misura va contro corrente, l’inserimento di una maggiore dose di relativismo culturale. Una decostruzione dell’idea dell’appartenenza dell’identità. Tutti ci diciamo antirazzisti però il senso comune dice che l’Italia è il paese con il più grande patrimonio culturale al mondo e quella è una forma, dal mio punto di vista, di razzismo implicito. Bisognerebbe entrare dentro il meccanismo della costruzione della identità nazionale, dell’identità collettiva e smontarla, allora là si possono cambiare le cose. Quando qualcuno si incomincia a immaginare più come essere umano che come italiano, come tedesco, come siciliano».

A cura di Valentina Mele