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Cos’è rimasto degli Angeli del coronavirus?

Medici elogiati come eroi ieri, criticati e bersagliati oggi: cos'è rimasto della retorica e dei buoni sentimenti che hanno caratterizzato la prima ondata di Covid-19.

Medici elogiati come eroi ieri, criticati e bersagliati oggi: cos'è rimasto della retorica e dei buoni sentimenti che hanno caratterizzato la prima ondata di Covid-19.

Due lockdown, due sentimenti completamente diversi.
La prima ondata di coronavirus e la seconda hanno impattato in modi totalmente differenti sulle nostre vite e sulla percezione dell’emergenza. In autunno abbiamo perso la retorica, e forse anche la fiducia, che hanno contraddistinto il primo lockdown: oggi non leggiamo più sui giornali di santi, né di eroi, come venivano chiamati medici e ricercatori a marzo. Eppure loro sono sempre lì, in prima linea, ad affrontare turni massacranti, con un enorme peso emotivo sulle spalle.

Foto: Milo Manara

Sono gli unici confidenti dei pazienti Covid, quelli che stringono la mano agli anziani che si sentono soli, che preparano l’ultima videochiamata dei malati con i loro parenti. Eppure di loro si è smesso di parlare. Come di molti altri effetti collaterali dell’epidemia. Mentre la diffidenza dell’opinione pubblica aumenta. Il motivo di questo cambio di percezione, spiega il virologo Fabrizio Pregliasco, è l’estrema stanchezza che tutti noi, medici e non, stiamo provando.

Oggi le regole anti-contagio che ci viene chiesto di rispettare sono le stesse: mascherina indossata, igienizzazione delle mani e distanziamento sociale. Continuano però a mancarci il contatto umano e la socialità, a cui siamo costretti a rinunciare; le nostre case non sono mai state così vissute, e la noiosa normalità a cui eravamo abituati prima di tutto questo sembra un lontano ricordo. Ma a parte questo, è tutto cambiato.

Il primo lockdown e l'illusione che sarebbe finita presto

La prima volta ci sembrava un film. Quello che ci raccontavano i tg pareva assurdo: nessuno ci aveva mai detto prima di allora che ci saremmo addirittura potuti uccidere soltanto cenando insieme o dandoci un abbraccio. Ma ci stavamo affacciando alla primavera, avevamo paura - di Covid-19 a febbraio 2020 si sapeva ancora molto poco - però eravamo fiduciosi.

«La prima ondata sembrava uno sprint, in tutti noi prevaleva l’adrenalina», dice il professor Pregliasco. «Risolviamo il problema, ce la facciamo», pensavamo. «Oggi invece sappiamo che questa è una maratona, e nelle maratone c’è sofferenza, c’è la pesantezza del dover soffrire a lungo».
E anche la fiducia scarseggia. In primavera avevamo voglia di uscire sui balconi tutte le sere alle 18, e cantare insieme per scacciare quell’angoscia mai provata prima. Da quei balconi spesso avevamo voglia di chiacchierare con chi passeggiava in strada, di appendere le bandiere tricolore alle finestre, di far disegnare ai bambini l’arcobaleno con la scritta: “Andrà tutto bene”. Scrivevamo sui social #iorestoacasa, avevamo voglia di videochiamare quotidianamente i nostri parenti o amici.

La retorica degli "Angeli del coronavirus"

E poi avevamo bisogno di credere in loro, i medici che hanno fronteggiato la prima ondata (in totale - dati aggiornati all’8 dicembre 2020 - i medici morti sono 237: una strage) e essergli grati, spesso idealizzandoli anche, chiamandoli “Angeli del coronavirus”. La stampa durante la prima ondata non ha fatto altro: il 2 febbraio Il Messaggero titolava “Gli Angeli della ricerca”. Repubblica “Gli Angeli del virus”.

Il Fatto Quotidiano, il 9 marzo: “Ospedali, infermieri, farmacie: gli angeli del virus”. Libero si spinse oltre il terreno: “Medici donne dello Spallanzani sono riusciti a fare il miracolo” riferendosi alle ricercatrici che hanno il merito di aver isolato il virus. Non professioniste, non scienziate competenti, ma donne che compiono un miracolo, come se fosse incredibile che un traguardo simile venga raggiunto da medici dal sesso femminile.

A fare notizia non era la scoperta avvenuta in laboratorio, ma il genere di chi ne aveva merito. Solo Il Manifesto il 4 febbraio titolava: “Il virus del patriarcato”, chiedendo ai colleghi: “Vi piacerebbe essere angeli precari pagati il 16% in meno di chi svolge le vostre stesse mansioni?”. La più giovane del team, la 31enne Francesca Colavita, quando ha isolato il virus in meno di 48 ore insieme alle colleghe Concetta Castilletti e Maria Rosaria Capobianchi, era una ricercatrice precaria con uno stipendio da 16.700 euro l’anno. Di questo non si parlava.

Sono passati sette mesi da quando è finito il primo lockdown. Da quando abbiamo potuto rivedere i familiari, uscire a bere un caffè al bar, entrare in un negozio. In mezzo c’è stata un’estate non così strana come ci avevano fatto credere: i casi di Covid erano un migliaio al giorno, le spiagge affollate anche se con le mascherine sul viso, le vacanze non ce le siamo fatte mancare.

Il virologo Pregliasco: «Siamo assuefatti anche alle notizie peggiori»

Ci eravamo illusi che il peggio fosse passato. E invece, progressivamente, con l’autunno i casi di contagio sono aumentati insieme al numero dei morti: il 3 dicembre è stato toccato il dato più drammatico relativo ai decessi, mai registrato prima, 993 in 24 ore, superando il picco di 969 morti datato 27 marzo. Ma anche questo, ormai sembra non sconvolgere più, sottolinea il professor Pregliasco: «Purtroppo ormai siamo anestetizzati da tutto, anche dal numero dei morti, e questo aspetto è impressionante. 600, 700 o 800 non ci facciamo più caso. Ci si abitua al rischio». Per il virologo «nella prima ondata c’era la speranza che la scienza desse risposte istantanee, invece i tempi della scienza sono lunghi: servono ipotesi e continui confronti tra opinioni. Si va avanti per tentativi ed errori, questo richiede tempo, e spaventa molto».

A dicembre la stanchezza si fa sentire. Non si ha voglia di parlare dei 993 decessi, non si ha più voglia di condividere cene via Skype, non si ha più voglia di uscire sui balconi, tantomeno di cantare. Non si pensa più a quei reparti Covid strapieni di pazienti soli e anziani che non possono vedere i loro familiari, non si pensa più a dramma di chi non può salutare un parente o un amico deceduto, non si pensa più alla fatica e allo sforzo umano e professionale dei medici e degli infermieri in prima linea. “La stanchezza dei miei colleghi è impressionante, adesso è davvero dura. E il riposo non è concesso, stiamo bloccando le ferie”.

Ieri eroi e oggi nel mirino di polemiche e contestazioni

E noi abbiamo voglia di pensare al Natale, all’albero addobbato, ai ricongiungimenti familiari, al primo gennaio 2021 che saluterà quest’annus horribilis, al vaccino, al primo viaggio che faremo quando le regioni non avranno più colori e gli Stati non detteranno più restrizioni di entrata e uscita.
Vogliamo che questa “grande sofferenza”, come la definisce Pregliasco, finisca, ma troppo spesso questa sfocia in una sfiducia sorda e irrispettosa.

«Il cambio di sentimento», spiega Pregliasco, che è anche presidente ANPAS (Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze) è evidente: «Prima ci applaudivano dai balconi, mentre poco tempo fa delle persone sono venute a controllare se le ambulanze fossero davvero piene o si trattasse di una montatura». Non solo: nei giorni scorsi presso la Croce Verde a Milano qualcuno ha preso a sassate un’auto parcheggiata. «Purtroppo oggi si tende a dare molto per scontato il lavoro di chi fronteggia il Covid ogni giorno».

Oltre ai negazionisti del virus, coloro che infangano il loro sacrificio, ci sono gli scettici nei confronti del vaccino. «Quando si sta male si assumerebbe qualsiasi farmaco pur di guarire, in questo caso è diverso: si tratta di prevenire un rischio potenziale futuro. Sensibilizzare quindi è necessario, accompagnando le persone alla vaccinazione con una corretta informazione».
Siamo stanchi e sofferenti, ma non perdiamo la fiducia nella scienza: soltanto grazie a lei potremo lasciarci alle spalle tutto questo.

Foto apertura: Lapresse