Editoriali
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Ministra, avvocata, ingegnera: è davvero priorità?

Alcune libere considerazioni su uno dei temi più caldi del periodo: la declinazione al femminile delle professioni. 

Alcune libere considerazioni su uno dei temi più caldi del periodo: la declinazione al femminile delle professioni. 

C'è una cosa che mi gira in testa da un po', ma che fatico a esprimere, perché il tema è delicato e la libertà d'espressione non da tutti del tutto tollerata. Si tratta della questione relativa alla declinazione al femminile di certe professioni: prefetta, ministra, controllora, muratora, avvocata. Ne comprendo lo spirito e lo rispetto, ma non lo condivido. Almeno non in toto (fermo restando che ognuna ha il sacrosanto diritto di scegliere come farsi chiamare). La mia intenzione, qui, non è ovviamente quella di esprimere certezze (mai avute) ma semmai provare ad aprire un dibattito costruttivo, mettendo sul piatto un paio di considerazioni.

La prima

Per quanto non vi sia dubbio sul fatto che il linguaggio e la società si influenzino reciprocamente, tendo a pensare che sia la seconda ad avere più potere sul primo, e non viceversa. Semplificando: se dovessimo scegliere tra l'educare nostro figlio a essere gentile col prossimo (uomo o donna che sia), o a chiamare la ministra "ministra" e l'avvocata "avvocata", cosa riterremmo più efficace sul lungo periodo? Mi viene da pensare che, educando al rispetto e alla parità nei gesti del quotidiano, anche il linguaggio, nel tempo (molto tempo), tenderà a subire delle naturali - quindi autentiche- modificazioni. Credo sia invece molto difficile che avvenga il contrario. Posso certo educare mio figlio a declinare i nomi al femminile, ma di per sé ciò non mi garantisce che non crescerà violento, maschilista e machista. Verosimilmente, senza una base educativa sana, è facile che il mio bimbo dal linguaggio educatino si trasformi in un troglodita che ti schiaffeggia e urla addosso comunque, ma declinandoti al femminile. Direte: ma infatti bisogna fare entrambe le cose. Rispondo: ovviamente, ma qui si sta provando a ragionare su cosa sia più impattante sul piano pragmatico, per valutare a quali lotte - perché tante ce n'è da fare - dare priorità, e soprattutto in quale direzione.

La seconda

Altra questione che mi crea più di una perplessità è estremamente personale. Che mi si chiami giornalista, giornalisto, giornalist*, giornalist§, l'immagine che vedo riflessa nel mio specchio, in bene o in male, non cambia. E aggiungo: ma magari cambiasse. Non sarebbe forse più indicato invitare le donne - e le persone in generale - a credere in sé, a sentirsi "piene", a prescindere da e nonostante le definizioni esterne? La cruda verità è che la vita non è una favola e l'essere umano è nato difettoso.

In linea generale, al di là delle declinazioni, se nella vita quotidiana un uomo mi offende, dandomi della poco di buono o della mestruata, la mia reazione è molto più vicina alla compassionevole risata (che t'è successo piccino? vuoi carezzina?), che alla rivolta. Su questo punto prendo in prestito una citazione dell'uomo che mi ha insieme risolto e devastato la vita alla tenera età di 16 anni, ovvero Oscar Wilde: "Finché la guerra sarà considerata una cosa malvagia, conserverà il suo fascino; quando sarà considerata volgare, cesserà di essere popolare". Se considerassimo tutti questi bellimbusti dei cafoni volgarotti complessati, e se quindi modificassimo il concetto di violenza e di superiorità maschia in qualcosa di realmente percepito come negativo, da compatire, sbeffeggiare, emarginare (il concetto, non le persone), piuttosto che da attenzionare ed esaltare con manifesti, polemiche e tweet, probabilmente le cose inizierebbero davvero a cambiare. Reinterpretando Wilde: "Finché la violenza sarà considerata una cosa macha e "dominante", conserverà il suo fascino; quando sarà considerata una cosa da pisellini piscialetto, cesserà di essere popolare". Tornando al discorso iniziale penso sia quindi più corretto dire che è il significato che diamo alle parole, prima che la loro forma, ad avere un peso.

C'è infine da dire, e chiudo, che anche a volerne fare un discorso da vocabolario, tantissime meravigliose parole sono femminili. Poesia, forza, bellezza, umanità, caparbia, vittoria, intraprendenza, dignità, creatività, libertà, identità. Potrei proseguire all'infinito ma mi fermerò a "Persona". Persona, sì. Da Treccani: l’individuo umano in quanto è ed esiste, ossia intende e vuole, esperimenta e crea, desidera e ama, gioisce e soffre, e attraverso l’autocoscienza e la realizzazione di sé costituisce una manifestazione singolare di quanto può considerarsi essenza dell’uomo, nella sua globalità intellettiva e creativa, e come soggetto cosciente di attività variamente specificate (razionale, etica, ecc.).

Che mi frega, quindi, se mi chiami avvocata o avvocato, controllore o controllora? L'importante è che mi tratti e consideri per ciò che sono e - auspicabilmente - so di essere. Cosa o chi? UnA personA, of course. Esattamente come te.

Foto apertura: Pedro Antonio Salaverría Calahorra