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SOS violenza sulle donne: lo speciale

PEOPLE: L'ATTUALITA'
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Dopo le botte, il giudizio: cos'è la vittimizzazione terziaria

La violenza sulle donne è fatta anche di ferite che non si vedono. Dopo aver trovato il coraggio di chiedere aiuto, ci si scontra con il muro più doloroso: quello delle condanne degli altri
 

La violenza sulle donne è fatta anche di ferite che non si vedono. Dopo aver trovato il coraggio di chiedere aiuto, ci si scontra con il muro più doloroso: quello delle condanne degli altri
 

Lividi, distorsioni, fratture, ferite, femminicidio. Sono i segni visibili ed estremi di un fenomeno tristemente noto: la violenza sulle donne. Ma per chi ha la fortuna di sopravvivere alla furia di mariti e compagni incapaci di gestire la rottura di un legame o, semplicemente, le proprie emozioni, c'è una ferita invisibile che spesso brucia più delle altre. È fatta di occhiate, mormorii appena percepiti o vere e proprie sentenze non richieste. Questo fenomeno ha un nome preciso: vittimizzazione terziaria. E ci riguarda tutte.

Cos'è la vittimizzazione terziaria?

Mettiamolo in chiaro. La violenza non finisce con l'ultimo schiaffo o con la denuncia. Spesso, inizia una terza ondata di dolore, subdola e devastante, chiamata appunto vittimizzazione terziaria. Ma per capire esattamente di cosa si tratta è necessario esaminare la vittimizzazione primaria e quella secondaria.

La vittimizzazione primaria è la violenza stessa, subita da un essere umano di qualunque sesso. Può essere fisica, psicologica oppure economica. La vittimizzazione secondaria si subisce quando le istituzioni - vedi forze dell'ordine o tribunali - invece di proteggere la vittima, la colpevolizzano, dubitano delle sue parole o, peggio, in sedi pubbliche la umiliano.

La vittimizzazione terziaria è la violenza che arriva da tutti noi - dalla società, dai media, dagli amici, a volte persino dalla famiglia - e che investe la vittima come uno schiaffo invisibile. Ne avvelena la vita come il monossido di carbonio che, lento ma inesorabile, fagocita l'ossigeno e porta alla morte per asfissia. È l'opinione non richiesta, il commento tagliente, il pettegolezzo sussurrato. In poche parole, è la collettività che punta il dito contro la vittima, invece che contro il carnefice, in un collettivo «Se l'è cercata"».

Vittimizzazione terziaria: le frasi che uccidono una seconda volta

«Raptus di gelosia», come se l'amore potesse giustificare la violenza. «La vittima indossava...», come se l'abbigliamento potesse giustificare gesti folli. «Era uscita da sola di notte?», come se "l'azzardo" a passeggiare non accompagnate sia una valida motivazione per l'appuntato di turno in commissariato.
«Se non voleva, perché è andata a casa sua?», insinuano i soliti leoni da tastiera nei commenti sui social. Persino le amiche di sempre possono diventare "carnefici" con una semplice domanda come «Ma sei sicura? Forse hai esagerato». O il parente inopportuno che dice «Avresti dovuto capirlo prima, un uomo così». Come se fosse facile.

Sono frasi che ti suonano familiari? Ognuna di queste domande o affermazioni può trasformarsi in un pugnale, se non si è attrezzate psicologicamente a contrastarle. Perché il succo di ogni espressione è sempre lo stesso: È colpa tua. E così, la donna che ha subito violenza si sente sbagliata, sporca, sola. Inizia a dubitare di sé stessa, si vergogna e, molto spesso, si chiude in un silenzio che può costarle la vita.

Le conseguenze: perché il giudizio è complice della violenza

La vittimizzazione terziaria non è un'opinione, è un'arma. Ecco perché. Prima di tutto, chi è vittima di violenza di terzo livello vive una sensazione di isolamento. Il giudizio ricevuto allontana la persona dalla sua rete di supporto, facendola sentire completamente sola. In secondo luogo, la vittimizzazione terziaria produce un effetto sociale: scoraggia le denunce. Chi avrebbe il coraggio di esporsi, sapendo di finire sul banco degli imputati?

Infine, forse la conseguenza più grave, la vittimizzazione terziaria normalizza la violenza. Spostando l'attenzione dalla colpa del violento al comportamento della vittima, si finisce per giustificare l'abuso. È un meccanismo culturale tossico, figlio di stereotipi duri a morire che vogliono per lo più la donna sempre responsabile del desiderio e del comportamento maschile.

Come fermare la vittimizzazione terziaria

La buona notizia è che questa terza ondata di violenza possiamo fermarla noi. Ognuna di noi, ogni giorno. Farlo non è difficile.

In primo luogo, crediamo alle vittime, sempre, senza "se" e senza "ma". Poi facciamo un esercizio su noi stessi, facendo attenzione a misurare le parole. Eliminiamo dal nostro vocabolario frasi che insinuano dubbi o colpe. Invece di «Perché non l'hai lasciato?», proviamo con «Come posso aiutarti?».

Ancora: non dobbiamo avere paura di intervenire. Se sentiamo un commento colpevolizzante al bar, in ufficio o online, non stiamo in silenzio. Spieghiamo con calma perché quelle parole fanno male. Infine, informiamoci e informiamo. Condividiamo articoli, sosteniamo i centri antiviolenza, partecipiamo alle conversazioni. La consapevolezza è il primo passo per il cambiamento.

Costruiamo insieme una cultura del rispetto e dell'ascolto. Una comunità che sa accogliere, proteggere e sostenere. Perché nessuna donna debba mai più sentirsi sola di fronte al suo dolore.

Foto di apertura: Freepik