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Andrea Sales: «Vietare l’uso dei social? Inutile: ai giovani piace il proibito»

Formazione, cambio di mentalità, attenzione ai cambiamenti dei figli. E tanto dialogo. I consigli dello psicologo-influencer ai genitori, preoccupati per le pericolose “challenge” sul web.

Formazione, cambio di mentalità, attenzione ai cambiamenti dei figli. E tanto dialogo. I consigli dello psicologo-influencer ai genitori, preoccupati per le pericolose “challenge” sul web.

Una cintura di accappatoio stretta attorno al collo, per una Black Out Challenge, prova di soffocamento estremo in voga su Tik Tok. Doveva “solo” svenire riprendendosi con il cellulare davanti allo specchio e invece è morta così, asfissiata nel bagno di casa, una bambina di 10 anni di Palermo: le procure hanno aperto due fascicoli per istigazione al suicidio, ma in questi casi è davvero difficile trovare il colpevole, ammesso che ce ne possa essere uno. E non migliaia, se non milioni: le pericolose “challenge” del web, talmente estreme da mettere in pericolo la vita stessa, coinvolgono ormai un enorme numero di giovanissimi e non si contano più. Tra quelle del passato, chi non ricorda la Blue Whale, fatta (sembra) da 50 giorni di prove sempre più malate? Negli ultimi anni abbiamo poi letto del folle sgambetto a tradimento della Skullbreaker Challenge e del KnockOut Game, “gioco” che consisteva nel prendere a pugni sconosciuti in mezzo alla strada. Da censurare, eppure molto diffusa a livello mondiale, anche la Nek Nomination, in cui i partecipanti si filmano mentre bevono quanto più alcool nel minor tempo possibile. Stesso discorso per l’Eyeballing, che consiste nel versarsi vodka direttamente nel bulbo oculare. L’elenco, che comprende tra l’altro molte altre tipologie di sfide di soffocamento è (purtroppo) lunghissimo. «Quello di Palermo è un evento terribile per la famiglia e per la fotografia che offre della nostra società: mancanza di educazione all’uso dei social, vuoto di valori, focalizzazione delle attenzioni genitoriali su cose che sono poco rilevanti», spiega a DeAbyDay Andrea Sales, psicologo-influencer da 20 mila follower su Instagram: «Tanti genitori si preoccupano ad esempio della pagella scolastica, ma trascurano la capacità di ragionamento dei bambini di dieci anni».

Disagio giovanile, desiderio di essere accettati, paura di essere bullizzati in caso di rifiuto, etc. Perché così tanti ragazzini cadono nella trappola delle challenge?

«Per tutti i motivi che hai detto. Ma c’è un aspetto importante che vorrei sottolineare: il gioco per i bambini non è solo divertimento. Significa, o meglio significherebbe, mettersi alla prova. Per me, che ho giocato a pallacanestro a livello professionistico, il basket è stato da piccolo la scoperta delle regole, capire cosa vuol dire allenarsi e impegnarsi. I ragazzini oggi non sono più abituati a giocare per strada, hanno meno spazi di sperimentazione e scoperta sociale».

Quindi i giovani d’oggi non sono più svegli di prima?

«Viviamo in una società molto più ampia e globalizzata rispetto al passato. Anticipiamo tutto ma, lo dicono le neuroscienze, paradossalmente lo sviluppo del cervello è ritardato. Insomma, se i ragazzini di oggi per tante cose sono più svegli, per altre no. Hanno di più, ma tutto è pronto e a portata di mano. Abituati a fare meno fatica, devono sperimentare in altri campi. Se mancano i valori, trasmessi in particolari dai genitori perché è così che i ragazzini apprendono, osservando gli altri, allora sperimentano in maniera sregolata e incontrollata. Cominciando a copiare da coetanei oppure da ragazzini più grandi senza il senso della misura, che li inducono a fare azioni stupide».

andrea sales

Qualche consiglio per i genitori allora?

«Punto numero uno: nel momento in cui metti al mondo un figlio gli devi dedicare del tempo. Non ne serve tantissimo, ma un po’ per ascoltarlo sì. Attenzione, però: ascoltare non significa dare consigli o dire cosa deve fare, ma capire come ragiona e insegnargli a farlo attraverso delle domande. Non facendo indagini, tipo: “Perché hai fatto questa cosa?”, ma domande di processo, costruttive: “Come si potrebbe affrontare questo problema?”».

E il punto numero due?

«Quando i genitori si accorgono che mancano delle competenze, perché non sempre i genitori riescono a capire come stanno i figli, dovrebbero formarsi. Dedicare tempo a capire come funzionano oggi l’infanzia e l’adolescenza, mettendosi in testa che non ha senso fare paragoni con la loro esperienza dell’epoca, perché viviamo in una società che nel giro di 20 anni è cambiata drasticamente. Le dinamiche relazionali sono completamente diverse. Il sistema “educativo-ricattatorio” che c’era una volta, della serie “se non fai i compiti non esci”, oggi non funziona più».

Dunque vietare l’uso dello smartphone e dei social è inutile?

«Beh, io ho in cura bimbi di nove anni a cui i genitori vietano il cellulare, ma che se lo comprano con i soldi dato dalla nonna o che “rimediano” con il vecchio telefono del fratello più grande. Questo perché i giovanissimi vogliono esattamente stare nel proibito».

Ci sono dei segnali di malessere che i genitori possono cogliere nei figli?

«Sì, però voglio sia chiaro ai genitori che, anche se ci sono questi segnali, non significa necessariamente che i loro figli stiano male: chiudersi in camera, essere restii alla condivisione, parlare poco, dunque in generale vivere in maniera limitata la famiglia, è certamente un indicatore. Però, ecco, se avessi dei genitori che mi chiedessero di continuo cosa ho fatto a scuola, che voto ho preso, chi è più bravo di me in classe, perché questo esce dalle sedute che faccio, me ne starei chiuso in camera anch’io».

In effetti… altri segnali?

«Un altro segnale importante è il cambiamento del linguaggio, se i figli diventano più aggressivi nelle parole, più sboccati. Se i bambini cambiano il ritmo sonno-veglia, se dormono meno, se fanno fatica ad addormentarsi o sono nervosi. Se fanno pipì a letto, nel caso di bimbi piccoli. Se hanno cambiato alimentazione o non hanno voglia di vedere nessuno. Uno di questi indicatori però non vuol dire niente: magari un ragazzino ha iniziato a dire parolacce solo perché ha trovato un nuovo amico “figo” e lo imita. Se però ci sono più segnali insieme, è bene iniziare a farsi qualche domanda. Nel momento in cui c’è dialogo, il genitore deve chiedersi se il figlio vive il genitore, appunto, come un nemico o un interlocutore e un alleato».

Tornando al fascino del proibito, affrontare direttamente il tema della challenge può essere controproducente?

«Se io ti dico: “Non pensare a un pezzo di gorgonzola”, tu ci pensi immediatamente. Questo perché il nostro cervello non è in grado di processare la negazione “non”. Dire a un bambino di non fare una certa cosa è inutile: non lo dice Andrea Sales, ma le neuroscienze».

Quindi come dovrebbe parlarne un genitore?

«Dovrebbe dimostrarsi competente, cercando e scoprendo queste cose con il figlio. Se il bambino sente solo parlare di una cosa, gli resta la curiosità. Se invece la vede assieme ai genitori, capisce che mamma o papà sanno di cosa stanno parlando. E di conseguenza, se ne avrà bisogno, ne parlerà con loro perché li ritiene affidabili. Non basta dire: “Guarda che su Internet ci sono i pedofili”. È molto più utile far vedere ai bambini articoli di giornali o cercare insieme a loro sul web notizie in merito. Il segreto è normalizzare la questione, parlarne normalmente».

Questa educazione ai pericoli spetta anche la scuola?

«Sì, il problema di oggi è però che non c’è un allineamento sociale tra famiglia, scuola e persino sport, che permetta di trasmettere certi valori in modo coerente. Come possiamo pensare che la scuola, in difficoltà con gli insegnanti che fanno fatica con la didattica a distanza, possa trasmettere valori? Ad ogni modo, dovremmo dare ai ragazzini gli strumenti per ragionare su come fare le cose e non dire loro come farle. È la massima del pescatore: se ami tuo figlio non devi dargli il pesce, ma insegnargli a pescare. Però mi rendo conto che non sia facile».

La pandemia ha peggiorato le cose?

«Sì, il Coronavirus ha amplificato le situazioni. Chi era in gamba, attento, curioso, attivo, è riuscito anche in casa a fare cose costruttive, magari ha studiato e coltivato certi interessi. Chi era in difficoltà è andato ancora di più a fondo. E i ragazzini sono, in parte, la rappresentazione di ciò che i genitori fanno».

Foto apertura: seventyfour74 -123.rf