Carriere e Visioni
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Una pasticceria nella cucina di casa: la storia di Jennifer Cuppone

Jennifer è rinata, lavorativamente parlando, nella cucina di casa, dove da oltre quattro anni ha aperto il suo laboratorio di pasticceria "Tortami a casa", dopo aver lasciato il suo lavoro come grafica.

Jennifer è rinata, lavorativamente parlando, nella cucina di casa, dove da oltre quattro anni ha aperto il suo laboratorio di pasticceria "Tortami a casa", dopo aver lasciato il suo lavoro come grafica.

La seconda vita lavorativa di Jennifer Cuppone è cominciata con una torta per bambini, il primo ordine dopo settimane di silenzi, dubbi, speranze e paure. E soprattutto dopo che, solo pochi mesi prima, aveva deciso di lasciarsi alle spalle un cammino lungo undici anni come grafica negli uffici marketing per conto di diverse aziende.

«Era il lavoro per cui avevo studiato», racconta «a volte mi occupavo solo di grafica, altre volte gestivo tutta la parte marketing».
Oggi Jennifer è titolare di un laboratorio di pasticceria che ha aperto fra le mura di casa nel 2016, dando vita a una delle primissime Imprese alimentari domestiche in Italia. «Quando ho cominciato - racconta - ero la quattordicesima, oggi siamo più di duecento». Si tratta di laboratori che si appoggiano alla cucina di casa (con tutti gli accorgimenti del caso), per la produzione e la manipolazione di cibi e alimenti.

Una strada che Jennifer ha scoperto di poter intraprendere, soltanto per caso, e dopo diverse porte in faccia. Prima fra tutte, quella della sua vecchia azienda: «Ero da poco diventata mamma e in quel periodo l’azienda stava facendo alcuni cambiamenti. Ne ho approfittato per chiedere un part-time, anche per potermi organizzare al meglio con la mia famiglia. La risposta praticamente è stata: “O ti tieni il full-time o te ne vai”. E io a quell'azienda mi ero dedicata anima e corpo per otto anni. Ma con quei presupposti, ho deciso di andarmene”.

Comincia per Jennifer un anno di ricerca, sempre in ambito grafica, con esiti pressoché identici: tutte proposte di lavoro a condizioni irricevibili. «Una piccola casa di produzione cinematografica mi propose di diventare la responsabile di tutta la gestione dei progetti, offrendomi un contratto a progetto con un rimborso spese di 200 euro. Chiaramente li ho mandati a quel paese (ride, ndr)».
A quel punto però un’idea comincia a farsi strada: avviare un’attività in proprio, una pasticceria. Una prospettiva che spaventa, senza dubbio, ma fino a un certo punto. Perché Jennifer arriva da una famiglia di ristoratori, con un padre maître praticamente da una vita. E la cucina, proprio per questo, si porta con sé un universo di rituali e abitudini che hanno accompagnato Jennifer praticamente da sempre: «Mio papà, quando era a casa con noi, si portava dal lavoro delle ricette e le provavamo insieme, approfittando al massimo del tempo che poteva trascorrere con noi. Ma comunque anche quando non c’era ci piaceva proprio spadellare! E per me è sempre stata un’importante valvola di sfogo, dallo stress del lavoro, ma anche un’occasione di condivisione. Io ero sempre quella che alle cene portava il dolce».

Partire da una passione può essere sicuramente il punto di inizio di una nuova vita lavorativa. Ne sono convinti la sorella, il marito e gli amici che la incoraggiano: questo cambio di vita non può essere un salto nel vuoto, ma un’occasione per rinascere. E lentamente Jennifer comincia a crederci, nonostante le resistenze iniziali.
«Ho sempre pensato che non avrei mai lavorato nella ristorazione, vedendo quanto ha lavorato mio padre e quanti sacrifici ha dovuto fare». L’idea è quella di aprire una pasticceria e di diventare a tutti gli effetti una cake designer, una passione recente che, ancora una volta, è nata “in famiglia”. «È stata mia sorella a propormi una volta di fare una torta di cake design per il compleanno di mio figlio. “Mai nella vita!” mi ero sempre detta. Alla fine l’ho fatta, ci ho messo un secolo e anche a quel punto mi ero detta “La prima e l’ultima”. E invece mi sono appassionata e ne ho fatte molte altre».

Ma avviare un’attività non è così semplice e trovare un laboratorio che abbia prezzi accessibili diventa un’impresa fuori portata. Nel 2016, Jennifer è sul punto di mollare il colpo e fare un passo indietro e reinventarsi in un altro modo. In quel momento però succede qualcosa: «Per caso, ho trovato su Facebook la pagina di una ragazza di Mantova che sul suo profilo aveva scritto di avere un’Impresa alimentare domestica. Io l’ho chiamata subito e le ho chiesto come fosse possibile fare una cosa del genere. Lei è stata molto gentile e mi ha spiegato che cosa fosse la Iad. Il passo successivo è stato trovare un consulente Haccp che mi aiutasse ad aprire».
In quel momento le Iad in Italia sono meno di 15, le titolari sono tutte donne, che a un certo punto si conoscono e decidono di fare rete: diventano un gruppo (da cui poi nascerà anche un’associazione), si sentono spesso, si sostengono nei momenti più duri. Che, soprattutto quando l’attività è appena cominciata, si fanno sentire e anche parecchio. «La cosa più difficile è essere da sola. Può sembrare una banalità, ma non è facile non avere una routine di lavoro “classica”. Può essere un bene, ma anche un male. Capitava che io mi ritrovassi i primi tempi a fissare le piastrelle della cucina e pensare “E adesso? Qualcuno chiamerà?”».
E alla fine la prima, vera, chiamata, dopo vari ordini non confermati, è arrivata. «Una torta a tema Masha e Orso. Me la chiese un uomo e di solito gli uomini non chiamano mai. Mi suonò talmente strano, che pensavo che in realtà fosse un controllo per verificare se fossi o meno in regola. Ero doppiamente terrorizzata (ride, ndr)! In realtà era un ordine normalissimo».

Così “Tortami a casa” comincia ufficialmente la sua produzione di dolci, l’attività procede, sempre tra le mura domestiche, sempre senza un luogo fisico in cui incontrare i clienti. L’incontro con Veronica Benini, in arte “Spora”, fa però capire a Jennifer che lei una vetrina per la sua attività in realtà ce l’ha già: i social network. «Ho conosciuto la Spora a uno dei suoi corsi e lei ha insistito molto affinché fossi più presente sul web, con la mia storia e con tutto quello che avevo imparato su come si mette in piedi un’impresa alimentare domestica. Diciamo pure che mi fece un cazziatone per come mi ero posta fino a quel momento: con un logo nero e orrendo – proprio io che non ho nulla di nero, manco nell’armadio! – (ride,ndr)».

A quel punto l’attività “esplode”, gli ordini si moltiplicano, la mole di lavoro rende necessaria una lista d’attesa di quasi due mesi. «Questo succedeva prima del covid. Quando c’è stato il primo caso, a Codogno, ho scelto di fermarmi subito. Ai tempi sembrava che tutto dovesse durare un mese, ma ho avuto subito la sensazione di non dover andare avanti. Ho chiamato tutti i clienti che avevano ordini da di fine febbraio a inizio aprile e ho detto “io se fossi in voi la festa la annullerei”. Anche a mio discapito, ma le ho annullate tutte. Loro sono stati comprensivi e carini, e mi sono fermata. Ho fatto rinunce anche dolorose, in un momento in cui non c’era la percezione reale dell’emergenza. Ma non era proprio il caso di fare la feste».

Poco prima del lockdown un’idea ha cominciato a ronzare nella testa di Jennifer: dare vita finalmente a un negozio aperto al pubblico: «L’anno scorso ho cominciato a guardarmi intorno, anche se la pandemia ha un po’ rallentato. Però l’idea c’è. Uno step in più in un cammino che ha dovuto fare i conti con tante insicurezze, ma che sicuramente non ha lasciato rimpianti: «Forse da un paio d’anni sto iniziando a credere che, sotto sotto, non mi sono sbagliata, però non sono ancora convinta al 100% - dice Jennifer con la solita autoironia - Ma non mi sono mai pentita. Anche se all’inizio avevo paura di non essere in grado, poi mi sono resa conto strada facendo che si può fare, che potevo farlo, che posso farlo. Non tornerei mai indietro».