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Maternità al tempo del Coronavirus: il racconto di tre mamme italiane

Lorenza, Manuela e Giusy sono tre donne toccate in modi diversi dalla pandemia covid-19, tutte con un pensiero positivo a proteggerle dalla paura. Il racconto delle loro giornate da mamme isolate, i loro parti in ospedali silenziosi e le loro attese.

Lorenza, Manuela e Giusy sono tre donne toccate in modi diversi dalla pandemia covid-19, tutte con un pensiero positivo a proteggerle dalla paura. Il racconto delle loro giornate da mamme isolate, i loro parti in ospedali silenziosi e le loro attese.

Proteggere se stesse per proteggere i propri piccoli, anche in casa. Entrare in sala operatoria e cercare di non pensare alla paura di prendersi il coronavirus, ma solo a farcela. Guardare al parto, consapevoli che ora si è davvero sole, dentro e fuori la sala operatoria.

Sono tre facce della stessa medaglia, la maternità al tempo del coronavirus: i racconti di Lorenza, Manuela e Giusy.

Lorenza e Luca: una sola molecola in clausura

Lorenza ha 39 anni, lavora nel reparto comunicazione di PugliaPromozione - Agenzia Regionale del Turismo ed è il direttore creativo di Cucinamancina.com, la più grande food community italiana dedicata a chi mangia differente per scelta o necessità. Ma soprattutto è la mamma di Luca, nato il 25 novembre 2019, quando del coronavirus non sapevamo ancora nulla.

Del suo parto ricorda distintamente il dolore, il freddo, il numero 25 sul braccio dell'ostetrica Agnese e l'arrivo di Luca. «So che ora al Miulli (ospedale di Acquaviva delle Fonti, dove Lorenza ha partorito, ndr.) non fanno più l'epidurale e non fanno entrare più i papà in sala parto. Per me sarebbe stato molto brutto stare senza Giorgio, perché aggrapparmi al suo collo durante i picchi di dolore mi ha aiutato a restare in piedi». Il travaglio, iniziato con la rottura delle acque alle 3 di notte, le ha portato tanto freddo addosso.

«Per fortuna c'era Agnese. La sua umanità e la totale dedizione donata a me e Luca mi ha dato la forza necessaria ad affrontare il dolore, insieme alla presenza costante del mio compagno che mi faceva sentire al sicuro». Il travaglio di Lorenza è durato 18 ore. «Quando ho visto tatuato sul braccio di Agnese il numero 25 con accanto un cuoricino le ho detto:"Tu oggi non vai via finché non nasce Luca. E' destino che dovessi essere tu"». Era il 25 novembre e quel tatuaggio era un segno.

Alle 9:25 (sì, ancora il 25), Luca è nato e Giorgio ha tagliato il cordone ombelicale (cosa che ora non si può più fare) e Lorenza tremava come una foglia in mezzo alla tempesta dopo un'importante emorragia e molti punti. «Ho tremato per più di un'ora, mentre mi riportavano nella mia stanza di ospedale, finché non mi hanno posato addosso Luca, che si è attaccato al seno come se già conoscesse la sua strada. Per magia il mio corpo è diventato liquido e caldissimo ed ho smesso di tremare. Dovevo prendermi cura di lui. Ho capito che ero diventata mamma».

Oggi Lorenza non avrebbe potuto più fare l'epidurale, non avrebbe avuto al suo fianco Giorgio, ma nemmeno la sua mamma, che l'ha assistita durante la dura convalescenza notturna. «Ora in ospedale manca quella sensazione di sicurezza, di vicinanza umana. In più, alla paura del parto si somma quella del rischio di contrarre altro».

I sorrisi che salvano

Se la gravidanza, a rischio dal quinto mese, l'aveva allenata alla clausura, la nuova quotidianità di Lorenza era iniziata con le gite al mare che donavano luce e serenità a Luca sin dal suo secondo mese. «Quando è iniziata la quarantena, Luca è stato molto irrequieto, percepiva la nostra inquietudine. Io mi sono messa in clausura da molto prima che Conte lo chiedesse, perché io e Luca siamo una molecola, viviamo in simbiosi. Dovevo proteggere me per proteggere lui. Non esco dal 5 marzo e non vedo mia madre da allora. Essendo moglie di uno pneumologo, poteva essere una portatrice asintomatica e ho dovuto chiederle con infinita tristezza nel cuore di non venire più ad aiutarmi come faceva quasi ogni giorno».

«Dopo le preoccupazioni iniziali, ho capito che c'erano persone nella mia famiglia che avevano bisogno dei miei sorrisi e di quelli di Luca». Così Lorenza ha creato 'cucina con la family', un gruppo privato su Facebook dove cucinare in diretta con gli altri componenti della sua grande famiglia sparsa per l'Italia. Ha anche cominciato a disegnare pensieri colorati come “L'Albero della speranza” dove tutte le foglie/parenti sono di nuovo insieme e il messaggio è "presto ci abbracceremo".

Lo stesso concetto lo ha trasferito nella rubrica #ricettedelbuonumore. «Abbiamo deciso di farci cassa di risonanza per tutte le storie di quotidiana positività dei nostri 'mancini': come affrontano le loro giornate, qual è il loro antidoto contro noia e paura e una ricetta del buonumore facile da rifare insieme alla famiglia. Tra le storie, quella di Agnese che non può permettersi di ammalarsi perché distribuisce lievitati gluten free negli ospedali intorno a Casarano, quella dello chef Massimo Di Maggio che ha riscoperto il piacere di cucinare per la sua più piccola ed esigente cliente, sua figlia Diletta di 1 anno e mezzo, o quella di Maria Cesaria, che ha imparato a cucinare per sua figlia Futura di due anni mentre cresce nel suo grembo una nuova vita». E poi, Lorenza ha anche ripreso a pregare.

Il pensiero positivo di Lorenza

«Traggo forza da mio figlio Luca, dai suoi occhi immensi come il mare e dai suoi sorrisi sdentati e monelli. Lui mi ricarica di energia pulita e mi dà coraggio ogni giorno. È come se mi dicesse: mamma, giochiamo! Mamma, ridiamo e scopriamo insieme! E poi c'è la nostra luce buona del Sud, che ci abbraccia nonostante tutto. I germogli di melograno e di ulivo sul nostro terrazzo mi dicono che non c'è bisogno di noi per andare avanti, che la vita è più forte della morte e che siamo noi a dover cambiare prospettiva».

Manuela, Alessandro e il pasticciaccio brutto dell'ospedale

Manuela, 33 anni, impiegata amministratrice in una casa editrice, ha partorito il 23 marzo, in piena emergenza coronavirus. Se da un lato la curiosità di conoscere il piccolo Alessandro era tanta, così come la stanchezza per il pancione, dall'altro sperava che il suo primo figlio se la prendesse un po' più comoda. «Speravo che il 3 aprile sarebbe cambiato qualcosa, anche per permettere a Gaetano, il papà, di entrare – spiega la neomamma – ma lui è nato 8 giorni prima».

Il covid-19 e la paura di fare qualche passo falso hanno convinto Manuela a seguire il consiglio del suo ginecologo: monitorare le contrazioni. Quando il dolore è diventato insostenibile, è andata in ospedale col marito. In reparto, però, ci è entrata da sola. «Ho chiesto all'ostetrica che mi assisteva se in un'altra situazione mio marito sarebbe stato con me, ma lei ha risposto che ci vuole anche il consenso delle altre partorienti». Quindi non è detto che, senza coronavirus, il marito Gaetano ci sarebbe stato.

Nonostante il dolore, Manuela si è fatta guidare dalla natura e dalle mani sapienti dell'ostetrica. «Ha fatto delle manovre e mi ha toccata, ogni volta cambiando guanti e mascherine. Io, sopraffatta dal dolore, sono grata di questo supporto, anche perché se non hai le forze per partorire, sono loro ad aiutarti devono aiutare. E nel mio ospedale non c'era la possibilità di fare l'epidurale».

Il parto di Manuela è stato veloce: solo un'ora e mezza di travaglio. «Quando Alessandro è nato, un'infermiera mi ha chiesto il numero di Gaetano, che ricordavo a memoria, e l'ha chiamato con il suo cellulare». Lui era con sua madre in macchina, nel parcheggio dell'ospedale, ma non riusciva a vedere i segnali dalla finestra. Quando il neopapà ha dato le valige all'infermiera, ha cercato di entrare ma non si poteva far altro che una scappatina davanti al vetro, in pediatria, per scattare una foto al bambino e attendere la coraggiosa moglie mentre ritornava in reparto, per lasciarle una carezza sul viso.

Degenza con (brutta) sorpresa

Ma se il parto è stato veloce, la degenza è durata “un'eternità”: quattro giorni in cui è successo di tutto. Nonostante i punti e i dolori, Manuela se l'è cavata da sola, nel completo silenzio del reparto. «Nessuno mi ha assistito: il personale non ti aiuta più di tanto, ma soprattutto non ti dà il supporto che ti può dare un familiare». Ma passavano i giorni e non si usciva. Nel frattempo l'ospedale veniva chiuso perché era stato eseguito un tampone su un positivo al covid-19 direttamente in pronto soccorso. La situazione è sfuggita di mano.

Il pronto soccorso è stato chiuso per due giorni. Il personale era in quarantena. «Io assistevo costantemente a capannelli di persone che non sapevano che fare, allarmati dalla situazione. Io non avevo paura di prendere il virus: il mio sesto senso mi diceva che non sarebbe capitato niente né a me né a mio figlio. Ma mi ero stancata di sentire questi discorsi e pensavo a mio marito. Lui era solo, di notte, preoccupato per le voci di quello che era successo al pronto soccorso».

Il problema era uno solo: il bambino non prendeva peso. Per questo continuavano a tenerla in ospedale. «Ho chiesto l'aggiunta e il giovedì mattina mi hanno dimessa. Quando ho visto Gaetano giù, mi sono sentita sollevata. Una volta a casa la prima cosa che ho fatto è stato allattare mio figlio per poi darlo a mio marito». Dopo aver sistemato le cose, siamo corsi dal pediatra. «Quando mi hanno dimessa, mi hanno spiegato un po' di cose, ma io non riuscivo a concentrarmi. Avevo un solo pensiero: andare via»

Il pensiero positivo di Manuela

Alessandro è un bambino tranquillo. Dorme, fa le sue poppate e lascia il tempo ai genitori di fare colazione insieme e alla mamma di sbrigare alcune faccende in casa. «Il mio pensiero positivo è che non ho paura di prendere il virus, nonostante Gaetano lavori in farmacia. Anche perché lui è molto meticoloso. In più mi rilassa pensare che siamo solo noi 3. Mi aggrappo al pensiero che dal 13 aprile inizi la fase due, che si possa uscire di nuovo, anche se con le mascherine. Ho voglia di rivedere mia madre e di mostrare ai nonni il loro nipotino».

Giusy, in attesa di Angelina

Giusy ha 35 anni, gestisce un b&b in Puglia e attende che la sua Angelina venga al mondo, sperando che magari aspetti ancora un po'. La sua gravidanza l'ha trascorsa in campagna, circondata dall'amore della sua famiglia e del suo compagno. Questo l'ha aiutata a non sentire l'ansia della spesa, a cui pensa qualcun'altro, e a non percepire la pressione della situazione attraverso le mura dell'appartamento.

Lo spartiacque è stata la promessa di matrimonio di due miei amici: dopo quel giorno è cambiato tutto. All'inizio prevaleva l'incredulità e il distacco – tanto era tutto lontano. Ma la consapevolezza è arrivata piano piano. E poi, la paura. «Per tenerla lontana, cercavo di fare bagni di forza, grazie alle persone che mi circondano. Era tutto diverso da come lo avevo immaginato e pensato, ma dovevo rimanere tranquilla per lei». Anche se è difficile rimanere tranquilli quando non puoi nemmeno abbracciare chi ami, per trarre calore fisico.

Sempre più difficile: il cambio del ginecologo

Cosa c'è di più difficile che essere incinta durante una pandemia? Dover cambiare ginecologo durante una pandemia. È quello che è successo a Giusy, che ha conosciuto il suo nuovo medico il 10 marzo, tra mille cautele, code di pazienti lungo la tromba per le scale e igienizzanti. «I consigli sono quelli che seguiamo tutti, con maggiore attenzione per me. Restare a casa, igienizzare ambienti e se stessi, distacco minimo dai conviventi che devono uscire per necessità».

Al momento Giusy non sa come sarà il suo parto, anche perché la situazione è in continua evoluzione. «So per ora che entreremo io e la mia bambina. Non è come me lo aspettavo, ma come tante cose della vita, non va mai come progetti». Sarà assistita dal ginecologo di turno. «Nell'attesa mi documento, con un premura e un pizzico d'ansia. Sfrutto le piattaforme digitali alla ricerca di corsi preparato, corsi di yoga per rilassare schiena e muscoli addominali, così, per illudermi di essere il più preparata possibile. Ho scoperto che c'è una grande mobilitazione per supportare le neomamme e una grande solidarietà digitale che ci avvolge».

Il pensiero positivo di Giusy

«Mi sento sospesa, variabile, come il tempo primaverile – spiega Giusy – ma in fondo mi sento positiva perché il miracolo che mi abita è più forte di qualsiasi negatività». In attesa di quel giorno in cui scoprire un mondo nuovo, la futura mamma ha un suo gesto che l'aiuta a rasserenarsi. «Apro e chiudo i cassettini e le scatoline dove c'è il corredino, già lavato e pronto all'uso: mi dà belle sensazioni. Mi emoziona il pensiero della nascita, del suo profumo e dei suoi piedini e del momento in cui saremo di nuovo in tre».